Dire essere è dire la parola che dice ciò che le parole non possono dire: siccome non definisce, cioè non dice nel modo in cui le parole di solito servono a dire, esprime l’indicibile.
[→uma] Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque. [/uma]
Per esempio, quando Gesù dice Padre nostro che sei nei cieli, questa non è una descrizione di Dio, non è una definizione di Dio, non è un’identificazione dell’ambito di Dio. È una parola che esprime in maniera diretta l’indicibile, dice la realtà di Dio nella relazione immediata con la mia vita. Però questa parola riesce a dire l’indicibile solo se il mio orecchio la intende per quello che è, se vibra con quello che è. Altrimenti tutto ciò che è, oppure Padre nostro che sei nei cieli restano espressioni vuote, formule convenzionali che non dicono niente. Sono per dire l’indicibile: se pensiamo che dicano qualcosa, non dicono più nulla.
[→uma] Sono simboli che evocano profondità di senso e chiamano in causa la sfera del sentire, aldilà di quella del pensare. Ci sono espressioni linguistiche o corporee, eventi e fatti che hanno necessità di essere sentiti con i sensi del corpo della coscienza (akasico) altrimenti sfuggono alla comprensione, e certamente non sono afferrabili con gli strumenti cognitivi, tantomeno con quelli emotivi e affettivi.
Le espressioni “Essere”, oppure “Ciò-che-È”, non rimandano solo a paradigmi più o meno esoterici, sono l’essenza di un sentire “condensata in simbolo”. Se contemplo questo momento in cui scrivo queste parole e affermo: “È Ciò-che-È”, esprimo uno stato del sentire che sto sperimentando e con quella espressione ermetica voglio significare un insieme di stati generali e particolari noti a tutti i contemplativi.
Determinate espressioni sono archetipi transitori e a essi sono collegati vibratoriamente tutti coloro che sperimentano determinati stati di coscienza e di sentire: in quanto archetipi transitori sono aspetti di archetipi permanenti.
Faccio un esempio sintetizzando e semplificando brutalmente: l’a.t. Ciò-che-È (o espressioni equivalenti) è sentito da tutti coloro che lo alimentano – e con il quale sono connessi vibratoriamente – come presenza ed Essenza. La presenza/Essenza sperimentati non sono che un pallido riverbero dell’a.p. del Ciò-che-È: più viene alimentato e sperimentato l’a.t. del Ciò-che-È, più ci si avvicina alla vibrazione simbolica dell’a.p. del Ciò-che-È, vibrazione che ha una natura ben più complessa di quella contenuta nello spettro vibratorio dell’archetipo transitorio.
Sintetizzando e riassumendo: le parole sono simboli di sentire, solo più a valle sono simboli di pensare, concetti. Una parola è innanzitutto sentire; in seguito a una decodifica da sentire diviene pensare; con un’altra decodifica diviene provare (affetto, emozione, sensazione); con un’altra decodifica ancora diviene agire. [/uma]
Il Buddismo è molto attento a questo problema: contrariamente a quanto sovente si afferma, non è che tenga in scarsa considerazione la parola; anzi, proprio perché rispetta la parola e ne conosce la potenza, il Buddismo è attento all’uso che ne fa. Pertanto diffida della parola che pretende di definire in modo inequivocabile ciò che può solo indicare. Allo scopo di togliere il punto di appoggio a quella che potrebbe divenire un’idolatria della parola, basata sulla convinzione che la parola sia quello che dice, anziché un segno per dire qualcosa, il Buddismo fa un uso metodologico della negazione: la utilizza cioè non in funzione meramente negativa, ma come metodo per superare una forma affermativa che conclude e limita, definendo, anziché stimolare ad andar oltre qualunque definizione.
Per questo troviamo spesso, nei testi buddisti, la negazione drastica di ciò che si intende affermare, usata come modo per affermare oltre il limite che l’affermazione in se stessa comporta. In particolare il Vajra-cheddika-prajna-paramita sutra, (in giapponese Kogonkyo) noto il occidente come Sutra del diamante, uno dei testi più importanti della tradizione Mahayana, procede con questo metodo: il Budda è insegnato come non-budda, il risveglio come non-risveglio, la liberazione come non-liberazione. Più avanti nel testo, troveremo l’espressione natura autentica niente, e sarà una delle espressioni chiave dell’intero testo. È necessario aver ben presente questo uso della negazione così particolare e diverso rispetto a quello che siamo abituati a farne.
Grazie all’infarinatura di buddismo che molti testi e molti insegnanti diffondono, pensando forse di rendere un utile servizio, circolano ormai sentenze del tipo: il buddismo ha come scopo di giungere all’annullamento dell’io e alla fusione con l’assoluto tramite l’ottuplice sentiero. Questa frasetta, che si può trovare in qualunque catechismo buddista, in realtà non significa nulla, e per fortuna non la troveremo mai in Doghen. Non ha alcun legame con la mia esperienza della vita perché è del tutto sovrastrutturale rispetto a essa, e può diventare una bandiera paravento per nascondere proprio questa alienazione di me dalla mia vita. Quando la religione diventa alienante, vuol dire che la medicina si è trasformata in veleno: il fatto grave è che allora lo si continua a prendere e a somministrare con sempre maggior accanimento, convinti che i sintomi di avvelenamento siano in realtà disturbi connessi con l’inizio della guarigione.
Un possibile antidoto contro questo veleno, anch’esso da usare ovviamente con cognizione di causa, sta proprio nell’uso della negazione come mezzo per affermare ciò che, se semplicemente affermato, darebbe adito alla propria negazione. È lo stesso metodo che usa san Paolo, in particolare nella Lettera ai Romani, quando sostiene che è proprio la negazione della legge in quanto strumento di salvezza a rendere buona e santa la legge. Se lo strumento di salvezza fosse la legge, allora la salvezza sarebbe irraggiungibile, perché nessuno può ottemperare sempre e perfettamente alla legge: basterebbe una minima infrazione per essere fuori. La legge invece è buona e santa proprio perché come strumento di salvezza non funziona, e così ci mette di fronte al nostro limite.
Per ciò è necessario un salto, uno scarto: lo scarto del cavallo di Paolo sulla via di Damasco, il salto della fede, la grazia che salva gratuitamente, senza merito.*
«Se ogni cosa che è del tutto che vive consistesse nel potenziare se stesso con le proprie azioni, o nel risultato di causa ed effetto che viene dall’accordo con la norma, allora anche la testimonianza della via di tutti i santi, e il risveglio di tutti i budda, perfino la pupilla di budda e patriarchi, sarebbe una forza maggiore procurata con le proprie azioni, oppure il risultato di causa ed effetto che viene dall’accordo con la norma. Così non è.»
[→uma] *Ahinoi, questione annosa che richiederebbe molte parole. A me non piace il termine salvare applicato alle nostre esistenze e semplicemente ritengo che non c’è fede che salvi, c’è solo l’esperienza che conduce a comprensione: la fede, se per fede intendiamo il non contare solo su di sé e l’essere aperti allo scacco della vita che attraverso la sperimentazione e le esperienze conduce all’unità d’Essere, allora quella fede è una disposizione preziosa e non a caso sorge man mano che l’umano si affranca da se stesso. Ma è terreno scivoloso e bisognerebbe innanzitutto definire cosa si intende per fede, ma non è questo il momento.
Credo però che la questione del merito, del senza-merito, vada almeno un po’ chiarita: come si giunge alla condizione che definiamo di unità d’Essere? Per un colpo di fortuna? Per fede? Fatto salvo che la condizione di Unità è già, e lo è aldilà del tempo, nel divenire nel quale siamo immersi che senso hanno le innumerevoli esperienze se non quello di costituire un quid (noi diciamo un sentire) che incarni nell’adesso quella condizione di Unità?
Dico questo perché è evidente che l’Unità potenziale a noi non risolve niente, non ci libera dall’incarnazione e dalle sue fatiche, pertanto tutto il circo del divenire, illusorio ed effimero quanto si vuole, è uno spettacolo che realizza le condizioni che dall’Unità potenziale conducono all’Unità reale di ogni momento.
Non è dunque una questione di salvazione e di grazia, sono implicate questioni e dinamiche molto più complesse non risolvibili affermando: non in virtù della legge ma della grazia. [/uma]
In questo caso legge non è, come per Paolo di Tarso, la legge ebraica, ma la legge di causa ed effetto, cardine della dottrina buddista: il discorso però non muta. Non è la legge che salva, non è la dottrina. La legge della causa e dell’effetto è innegabile e santa, così come la dottrina che la rimarca, ma non tramite essa c’è la salvezza**. Anzi, la salvezza è liberazione dalla legge: però la liberazione dalla legge non è annullamento della legge, non è svincolamento dalla legge, non è scoperta dell’inconsistenza della legge. È il ritorno all’origine da cui anche la legge trae la sua origine e la sua ragione d’essere, quel tuffo di abbandono che Doghen chiama abbandonare corpo e spirito (shinjin datsuraku), e che Paolo chiama grazia (karis). ***
[→uma] **“La legge della causa e dell’effetto è innegabile e santa, così come la dottrina che la rimarca, ma non tramite essa c’è la salvezza”. Temo che qui Jiso incorra in un qualche fraintendimento, è difficile fare un parallelo tra la legge degli ebrei, un archetipo transitorio come tutte le religioni, e la legge di causa ed effetto, o karma, che non è un archetipo transitorio, ma una delle leggi fondamentali che governano il cosmo, le logiche del divenire in un cosmo. Chiaramente comprendo quanto Jiso vuole affermare in merito alla legge che si fa velo e anche ostacolo, in alcuni casi, ma qui mi interessa approfondire aspetti necessari in questo contesto.
È attraverso il karma che l’evoluzione del sentire viene modulata, regolata e condotta: è il karma che ci conduce dal più becero egoismo alla capacità di sentirci uno-non-altro: quindi, sì, è il karma che ci salva, se proprio dobbiamo usare questo orribile verbo.
***Jiso vuol dire, e forse con lui anche Dogen, che prima della legge c’è l’abbandono tout court, l’abbandono di sé in quanto tale: non si può che condividere, chiaramente, ma bisogna intendersi sulla valenza del verbo abbandonare e sulla sua relazione con la legge.
Condizionati dalla cultura e dal paradigma cristiani, o dai condizionamenti culturali e religiosi dell’epoca di Dogen, possiamo non comprendere che esiste legge e legge e dobbiamo essere capaci di differenziare e discernere: una cosa è la legge-religione degli ebrei, dei cristiani, dei contemporanei di Dogen, legge la cui osservanza, spesso meticolosa e ossessiva, si frappone come un ostacolo all’abbandono all’Essere, e la legge che ci conduce, pur nella illusorietà del divenire, all’Essere.
L’umano ama edificare archetipi transitori religiosi – leggi – e anche se non amasse farlo li edificherebbe comunque perché quando più persone condividono lo stesso “fascio” di vibrazioni, inevitabilmente costituiscono un riferimento/aggregato vibrazionale chiamato archetipo: aggregato che nutrono vibrazionalmente e dal quale vengono nutrite; aggregato che rafforzano e che le influenza tanto più quanto più lo frequentano. Aggregato che pur derivando da un archetipo permanente, questo sì santo, finisce per divenire un ostacolo a un certo punto dell’evolvere del sentire.
Ecco che, allora, maturato un dato sentire, avviene un conflitto con la legge/a.t. e la necessità di focalizzarsi non sui dettami di questa ma sui principi propri all’archetipo permanente: quando l’a.t. ha assolto alla sua funzione limitata, avviene un risveglio nella consapevolezza e la capacità di ascolto dell’a.p. diviene preminente.
Il ricercatore supera la legge/a.t. e si orienta sulla sorgente, sull’archetipo permanente.
Questo è il passaggio dalla legge alla grazia paolina, o l’abbandonare corpo-spirito di Dogen.
In quale reame conduce la grazia paolina? E a quale consapevolezza accede chi abbandona corpo-spirito?
Non sono queste espressioni forse niente altro che immagini/simboli di un passaggio di consapevolezza?
Da una consapevolezza più limitata, quella della legge religiosa, a una consapevolezza più vasta, quella dell’archetipo permanente/Essere/Sorgente?
Cambio di consapevolezza conseguenza di una maturazione del sentire di coscienza, maturazione avvenuta grazie alla legge del karma, legge cosmica, non umana. Il nuovo approdo, quello all’Essere/archetipo permanente, non è un giungere in un indistinto e indefinito, è l’approdo a un nuovo livello della legge cosmica, ovvero è una nuova capacità di uniformarsi alla natura dell’Essere che chiama e conforma a sé secondo leggi del divenire proprie di questo livello di sentire/consapevolezza. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?