Dōgen, Busshō: commento (2) di Jiso Forzani a Busshō 2 [busshō2.2]

Dire essere è dire la parola che dice ciò che le parole non possono dire: siccome non definisce, cioè non dice nel modo in cui le parole di solito servono a dire, esprime l’indicibile.

Per esempio, quando Gesù dice Padre nostro che sei nei cieli, questa non è una descrizione di Dio, non è una definizione di Dio, non è un’identificazione dell’ambito di Dio. È una parola che esprime in maniera diretta l’indicibile, dice la realtà di Dio nella relazione immediata con la mia vita. Però questa parola riesce a dire l’indicibile solo se il mio orecchio la intende per quello che è, se vibra con quello che è. Altrimenti tutto ciò che è, oppure Padre nostro che sei nei cieli restano espressioni vuote, formule convenzionali che non dicono niente. Sono per dire l’indicibile: se pensiamo che dicano qualcosa, non dicono più nulla.

Il Buddismo è molto attento a questo problema: contrariamente a quanto sovente si afferma, non è che tenga in scarsa considerazione la parola; anzi, proprio perché rispetta la parola e ne conosce la potenza, il Buddismo è attento all’uso che ne fa. Pertanto diffida della parola che pretende di definire in modo inequivocabile ciò che può solo indicare. Allo scopo di togliere il punto di appoggio a quella che potrebbe divenire un’idolatria della parola, basata sulla convinzione che la parola sia quello che dice, anziché un segno per dire qualcosa, il Buddismo fa un uso metodologico della negazione: la utilizza cioè non in funzione meramente negativa, ma come metodo per superare una forma affermativa che conclude e limita, definendo, anziché stimolare ad andar oltre qualunque definizione.

Per questo troviamo spesso, nei testi buddisti, la negazione drastica di ciò che si intende affermare, usata come modo per affermare oltre il limite che l’affermazione in se stessa comporta. In particolare il Vajra-cheddika-prajna-paramita sutra, (in giapponese Kogonkyo) noto il occidente come Sutra del diamante, uno dei testi più importanti della tradizione Mahayana, procede con questo metodo: il Budda è insegnato come non-budda, il risveglio come non-risveglio, la liberazione come non-liberazione. Più avanti nel testo, troveremo l’espressione natura autentica niente, e sarà una delle espressioni chiave dell’intero testo. È necessario aver ben presente questo uso della negazione così particolare e diverso rispetto a quello che siamo abituati a farne.  

Grazie all’infarinatura di buddismo che molti testi e molti insegnanti diffondono, pensando forse di rendere un utile servizio, circolano ormai sentenze del tipo: il buddismo ha come scopo di giungere all’annullamento dell’io e alla fusione con l’assoluto tramite l’ottuplice sentiero. Questa frasetta, che si può trovare in qualunque catechismo buddista, in realtà non significa nulla, e per fortuna non la troveremo mai in Doghen. Non ha alcun legame con la mia esperienza della vita perché è del tutto sovrastrutturale rispetto a essa, e può diventare una bandiera paravento per nascondere proprio questa alienazione di me dalla mia vita. Quando la religione diventa alienante, vuol dire che la medicina si è trasformata in veleno: il fatto grave è che allora lo si continua a prendere e a somministrare con sempre maggior accanimento, convinti che i sintomi di avvelenamento siano in realtà disturbi connessi con l’inizio della guarigione.

Un possibile antidoto contro questo veleno, anch’esso da usare ovviamente con cognizione di causa, sta proprio nell’uso della negazione come mezzo per affermare ciò che, se semplicemente affermato, darebbe adito alla propria negazione. È lo stesso metodo che usa san Paolo, in particolare nella Lettera ai Romani, quando sostiene che è proprio la negazione della legge in quanto strumento di salvezza a rendere buona e santa la legge. Se lo strumento di salvezza fosse la legge, allora la salvezza sarebbe irraggiungibile, perché nessuno può ottemperare sempre e perfettamente alla legge: basterebbe una minima infrazione per essere fuori. La legge invece è buona e santa proprio perché come strumento di salvezza non funziona, e così ci mette di fronte al nostro limite.

Per ciò è necessario un salto, uno scarto: lo scarto del cavallo di Paolo sulla via di Damasco, il salto della fede, la grazia che salva gratuitamente, senza merito.*
«Se ogni cosa che è del tutto che vive consistesse nel potenziare se stesso con le proprie azioni, o nel risultato di causa ed effetto che viene dall’accordo con la norma, allora anche la testimonianza della via di tutti i santi, e il risveglio di tutti i budda, perfino la pupilla di budda e patriarchi, sarebbe una forza maggiore procurata con le proprie azioni, oppure il risultato di causa ed effetto che viene dall’accordo con la norma. Così non è.»

In questo caso legge non è, come per Paolo di Tarso, la legge ebraica, ma la legge di causa ed effetto, cardine della dottrina buddista: il discorso però non muta. Non è la legge che salva, non è la dottrina. La legge della causa e dell’effetto è innegabile e santa, così come la dottrina che la rimarca, ma non tramite essa c’è la salvezza**. Anzi, la salvezza è liberazione dalla legge: però la liberazione dalla legge non è annullamento della legge, non è svincolamento dalla legge, non è scoperta dell’inconsistenza della legge. È il ritorno all’origine da cui anche la legge trae la sua origine e la sua ragione d’essere, quel tuffo di abbandono che Doghen chiama abbandonare corpo e spirito (shinjin datsuraku), e che Paolo chiama grazia (karis). ***     

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.

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