Dogen, Busshō: commento (3) di Jiso Forzani a Bussho 2 [busshō2.3]

[Paragrafo di chiusura del post precedente 2.2] In questo caso legge non è, come per Paolo di Tarso, la legge ebraica, ma la legge di causa ed effetto, cardine della dottrina buddista: il discorso però non muta. Non è la legge che salva, non è la dottrina. La legge della causa e dell’effetto è innegabile e santa, così come la dottrina che la rimarca, ma non tramite essa c’è la salvezza. Anzi, la salvezza è liberazione dalla legge: però la liberazione dalla legge non è annullamento della legge, non è svincolamento dalla legge, non è scoperta dell’inconsistenza della legge. È il ritorno all’origine da cui anche la legge trae la sua origine e la sua ragione d’essere, quel tuffo di abbandono che Doghen chiama abbandonare corpo e spirito (shinjin datsuraku), e che Paolo chiama grazia (karis).      

Questo non risolve il problema del male, del dolore, del peccato, nel senso che li annulla, o che li nega. Lo risolve perché colloca la persona in un’altra prospettiva rispetto alla realtà del male, del dolore, del peccato. Ciò che noi chiamiamo polvere, contaminazione, sporcizia, non è qualcosa di fuori, qualcosa che da fuori entra dentro: non c’è nulla che sia fuori, quando il mondo intero è colto, nella fede, come il mondo dell’essere che è il tutto che è.

Pensiamo alla parola di Gesù: Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo. (Mc 7,14-15) Ricordiamo il valore che nel buddismo ha l’espressione fuzenna – non contaminare, di cui si è detto nella nota 13 al testo. Sperimentare il mondo intero come mondo dell’essere che è il tutto che è, significa sperimentare il mondo intero come il proprio vero se stesso*: non c’è nulla fuori, non c’è nulla altro da sé.

Quello che io chiamo tu, non è altro da me*, ed è ciò che tu chiami io, quello che tu chiami tu non è altro da te, ed è ciò che io chiamo io. Non contaminare è non erigere barriere, non separare ciò che è unito. Nell’abbandono di corpo e spirito, sia io che tu cadono, e sboccia il vero incontro, l’unione*. Nell’abbandono di corpo e spirito che è ritorno all’origine, ritorno al punto definitivo della mia vita, momento per momento è tagliata la radice che incatena, da cui anche la legge trae la propria necessità. Questo è il vero riposo, che nel buddismo si chiama non azione, non fare, non perché sia passività, ma perché è, appunto, abbandono della preoccupazione del da farsi e fiducioso affidarsi. 

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.

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Nadia

“Il contemplante non sente il mondo intero come il proprio vero se stesso, né sente se stesso come il mondo intero, sente, vividamente, l’unità di tutte le creature, se stesso parte di un insieme unitario.”

Queste parole arrivano potentemente.

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