Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque.
[Paragrafo di chiusura del post precedente 2.2] In questo caso legge non è, come per Paolo di Tarso, la legge ebraica, ma la legge di causa ed effetto, cardine della dottrina buddista: il discorso però non muta. Non è la legge che salva, non è la dottrina. La legge della causa e dell’effetto è innegabile e santa, così come la dottrina che la rimarca, ma non tramite essa c’è la salvezza. Anzi, la salvezza è liberazione dalla legge: però la liberazione dalla legge non è annullamento della legge, non è svincolamento dalla legge, non è scoperta dell’inconsistenza della legge. È il ritorno all’origine da cui anche la legge trae la sua origine e la sua ragione d’essere, quel tuffo di abbandono che Doghen chiama abbandonare corpo e spirito (shinjin datsuraku), e che Paolo chiama grazia (karis).
Questo non risolve il problema del male, del dolore, del peccato, nel senso che li annulla, o che li nega. Lo risolve perché colloca la persona in un’altra prospettiva rispetto alla realtà del male, del dolore, del peccato. Ciò che noi chiamiamo polvere, contaminazione, sporcizia, non è qualcosa di fuori, qualcosa che da fuori entra dentro: non c’è nulla che sia fuori, quando il mondo intero è colto, nella fede, come il mondo dell’essere che è il tutto che è.
Pensiamo alla parola di Gesù: Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo. (Mc 7,14-15) Ricordiamo il valore che nel buddismo ha l’espressione fuzenna – non contaminare, di cui si è detto nella nota 13 al testo. Sperimentare il mondo intero come mondo dell’essere che è il tutto che è, significa sperimentare il mondo intero come il proprio vero se stesso*: non c’è nulla fuori, non c’è nulla altro da sé.
Quello che io chiamo tu, non è altro da me*, ed è ciò che tu chiami io, quello che tu chiami tu non è altro da te, ed è ciò che io chiamo io. Non contaminare è non erigere barriere, non separare ciò che è unito. Nell’abbandono di corpo e spirito, sia io che tu cadono, e sboccia il vero incontro, l’unione*. Nell’abbandono di corpo e spirito che è ritorno all’origine, ritorno al punto definitivo della mia vita, momento per momento è tagliata la radice che incatena, da cui anche la legge trae la propria necessità. Questo è il vero riposo, che nel buddismo si chiama non azione, non fare, non perché sia passività, ma perché è, appunto, abbandono della preoccupazione del da farsi e fiducioso affidarsi.
[→uma] *Numerosi problemi con queste affermazioni:
a- “il mondo intero come il proprio vero se stesso”;
b- “Quello che io chiamo tu, non è altro da me”;
c- “Nell’abbandono di corpo e spirito, sia io che tu cadono, e sboccia il vero incontro, l’unione”.
a- “Il mondo intero come il proprio vero se stesso”: comprendo ciò che Jiso vuol dire ma viene a crearsi un mare di equivoci. Il mondo intero è il mondo intero, è Ciò-che-È e nulla ha a che fare con l’espressione “il proprio vero se stesso“. Il contemplante non sente il mondo intero come il proprio vero se stesso, né sente se stesso come il mondo intero, sente, vividamente, l’unità di tutte le creature, se stesso parte di un insieme unitario.
Ma non bisogna equivocare: il se stesso che il contemplante sente, poco ha a che fare con il se stesso soggettività, identità: il contemplante sente il sentire che lo costituisce e lo genera come componente costitutiva del sentire unitario e totale.
Il vero me stesso – espressione decisamente ambigua – è il sentire che mi genera e che è costituito da una molteplicità di gradi di sentire: nel divenire, in successione logica, ora si manifesta un grado di data ampiezza, ora un grado di ampiezza maggiore. Nell’Essere, tutti i gradi di sentire della manifestazione che chiamo “mia” sono contenuti. Il vero me stesso è l’Essere, una dimensione individuale ma non personale, non soggettiva; una dimensione che sperimenta la comunione dei sentire, dunque il superamento dei confini e delle separazioni io/tu.
Una dimensione individuale ma non personale, ho detto: non un “io” dunque, ma un insieme di gradi di sentire chiamato individualità: questa individualità non è uguale a un’altra individualità, ha sue specificità ma non ha in sé il principio della separazione proprio di una personalità/soggettività. Questa individualità, composta di sentire, sente sé e le altre individualità come parte di un insieme più grande.
Ne consegue che tutto procede per insiemi: l’individualità è un insieme e, insieme ad altre individualità genera un nuovo insieme; l’insieme risultante si fonde con altri insiemi e avanti così fino all’insieme che chiamiamo Uno-Assoluto.
b- “Quello che io chiamo tu, non è altro da me”. Tutto l’argomento che precede per confutare questa affermazione: il principio delle fusioni – le individualità che si fondono in insiemi – non azzera le differenze tra individualità e individualità.
1+1=3: questo è il principio. Una individualità che si fonde a un’altra individualità (ciascuna delle quali è composta da innumerevoli gradi differenti di sentire) genera una individualità terza che contiene le altre due ma è anche altro; il sentire che rappresenta non è la sommatoria delle due parti, è qualcosa di originale e altro. L’individualità 3 contiene però le due individualità che si sono fuse, nel senso che esse esistono, nella 3, come tali e con i loro sentire relativi.
Per questa ragione una espressione come: “Quello che io chiamo tu, non è altro da me”, in sé può essere sbagliata come corretta, dipende come la si intende. Chiaramente Jiso intende parlare del superamento delle soggettività e della comunione di sentire, ma questa non dà luogo a un indistinto “noi“, questo volevo precisare.
c- “Nell’abbandono di corpo e spirito, sia io che tu cadono, e sboccia il vero incontro, l’unione”. In realtà né io né tu cadono perché quel sentire che genera quella data manifestazione permane fin dentro al seno del Sentire Assoluto, ma cade il senso di separatività.
Non è questione di poco conto:
– la condizione di unità non è l’annullamento delle specificità dei vari gradi di sentire di date individualità (ogni individualità è composta di vari gradi di sentire e tutti permangono nell’Eterno Presente e ogni grado è presente nel sentire di grado maggiore e il sentire massimo contiene tutti i gradi che l’hanno preceduto),
– la condizione di unità non è una indistinta sommatoria fusionale, è data da un grado di comprensione e sentire più evoluto: ogni sentire porta la sua complessità e non si sente come parte divisa ma come parte che concorre, che partecipa, che è vivida componente di un insieme unitario.
La condizione di unità è condizione di sentire, di come un sentire sente se stesso, e si sente una specificità che procede ed È con altre specificità all’interno di un unico insieme che ha una stessa direzione, anche se l’incedere può essere specifico per ognuno.
Una individualità è qualcosa di diverso da un individuo ed entrambi sono molto lontani dalla nozione di soggettività (qui non posso approfondire), ma ciò che conta comprendere è che l’Unità ultima e assoluta è unità del molteplice, non un frullato di sentire.
Questo significa che fin dall’uscita dal saṃsāra la soggettività come visione del reale viene abbandonata, ma non la possibilità di essere complessità di sentire originali e irripetibili. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
“Il contemplante non sente il mondo intero come il proprio vero se stesso, né sente se stesso come il mondo intero, sente, vividamente, l’unità di tutte le creature, se stesso parte di un insieme unitario.”
Queste parole arrivano potentemente.