Ciò non vuol dire che qualunque cosa, nella condizione in cui è, sia l’essere, per cui tutto va sempre bene così*. Questo è il gran dubbio che viene ogni qual volta il discorso religioso arriva a questo punto. Se l’essere è il tutto che è, se non c’è nulla fuori dal sé, tutto è già a posto, lasciamoci andare all’impulso del momento.
[→uma] Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque. [/uma]
Dobbiamo guardare in faccia questo dubbio, senza evitarlo. Anche Paolo è nello stesso identico punto: Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di Dio, che diremo? Se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono giudicato ancora come peccatore? Perché non dovremmo fare il male affinché venga il bene? Non sono interrogativi retorici, sono inquietanti domande realistiche. Parlo alla maniera umana, dice Paolo; questa è la visione contaminata di chi è fuori dalla via e afferma: “Il mondo della verità universale è io” dice Doghen.
[→uma] *“Ciò non vuol dire che qualunque cosa, nella condizione in cui è, sia l’essere, per cui tutto va sempre bene così.”
Bisogna intendersi: ogni cosa che è Ciò-che-È oppure no? Se è Ciò-che-È c’è poco da aggiungere se è contemplata sul piano dell’Essere, ma ci può essere molto da aggiungere dal punto di vista del divenire: dipende dallo sguardo, dal piano in cui avviene l’osservazione.
L’assassino che toglie una vita compie un gesto che è Ciò-che-È, se contemplato; se considerato nell’ottica del divenire il suo gesto invece è un grosso problema. In sé, il gesto è sempre Ciò-che-È, ma dipende dal piano in cui viene sentito/osservato.
Una cosa è l’accadere della realtà, che è sempre Ciò-che-È, che è semplicemente Ciò-che-È, una l’interpretazione della realtà, e quando si parla di interpretazione esiste questo duplice approccio: Essere e divenire. L’umano può vivere questo duplice approccio, può sviluppare questa capacità di contemplare e di discernere: nella contemplazione tutto è Ciò-che-È, nel discernimento prendiamo decisioni e agiamo secondo dei criteri che si fondano su archetipi transitori e permanenti.
La cifra formativa del Sentiero contemplativo, fin dall’origine più di trenta anni fa, è in questo duplice sguardo, duplice ma non duale in quanto è sguardo unitario che tiene assieme Essere e divenire e sempre abbraccia il divenire con la compassione propria di Essere. [/uma]
Non ci sono due mondi distinti, due realtà separate: il mondo della verità universale non è un luogo particolare, in cui la verità è riposta, tenuta nascosta, rinchiusa, per cui a un certo momento balza fuori. Ciò non significa, però, che il mondo della verità sia il mondo così come è**: questo modo di vedere è proiettare una verità a propria immagine e somiglianza.
[→uma] **La questione che Jiso pone riguarda il mondo della verità, dell’autenticità e dice che non è un altrove esoterico ma non è nemmeno il reale essoterico.
Il fatto è, secondo la comprensione di chi scrive, che tutto dipende dal punto di osservazione in quanto non esiste alcuna realtà oggettiva: la stessa realtà – che è sempre e soltanto Ciò-che-È – può essere sentita con un ampio sentire o con un sentire alquanto limitato. Nel primo caso avremo una contemplazione del Ciò-che-È e un discernimento coerente col sentire che lo attiva, nel secondo caso otterremo una identificazione, zero contemplazione e un discernimento corrotto dall’identificazione.
Il mondo è uno, i fatti sono fatti, tutto è Ciò-che-È e niente altro, per il contemplativo. I fatti sono legna per il fuoco dell’identificato, invece. Entrambi esercitano un discernimento ma i frutti sono molto diversi perché differente è il sentire che li muove.
Chi ha compreso la natura del Reale è in grado di sentirlo e interpretarlo adeguatamente; chi non l’ha compresa è nella fornace del divenire e da quella viene plasmato: quindi sì, non esistono due mondi ma uno solo, però esistono due sguardi molto differenti tra loro. [/uma]
Noi sentiamo dire che Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, e ne approfittiamo per pensare che basti guardarsi allo specchio per vedere l’immagine di Dio: così facendo, invece, vediamo la nostra immagine, e pensando che sia quella l’immagine di Dio proiettiamo un dio a nostra immagine e somiglianza: anche se lo chiamiamo dio, è sempre io. Il mondo della verità è questo mondo andato al di là dello specchio.
Quando la vita è vissuta come la Via, anche tutto il passato prende senso. Il grande scrittore argentino Jorge Borges, che amava far dire alle parole cose indicibili, afferma che, volendo dire cos’è l’intelligenza divina, una buona similitudine potrebbe essere che è quell’intelligenza che vede le orme di tutti i passi che un uomo ha camminato nell’arco della sua esistenza come un unico percorso che forma un disegno armonioso e sensato. Nel momento della conversione, quando la via e la vita non sono separate, anche tutti i contorcimenti del nostro cammino assumono il senso: senza la conversione, anche la linearità di un procedere impeccabile è priva di autentica direzione.
[→uma] “Senza la conversione” tutti vanno comunque dove debbono andare, dove le leggi del Cosmo li conducono, e tutti andiamo, inesorabilmente e ineluttabilmente, verso l’Unità di Essere. Bizzarro sarebbe se l’Unità d Essere fosse riservata ai soli seguaci della Via o ai soli consapevoli: a noi sembra che nulla centri la consapevolezza e nulla la Via, ci sembra che, semplicemente, tutta l’acqua scenda al mare.
Questo implica che la volontà, la pratica, le credenze, la Via non hanno senso in relazione alla meta – che comunque arriva a tempo debito per ognuno, e questa direi che è la nozione di “grazia” – ma incidono solo sul tasso di fatica, di dolore che ci troviamo a incontrare nel nostro pellegrinare incontro alla meta.
Un inciso in merito a questa affermazione: “che comunque arriva a tempo debito per ognuno, e questa direi che è la nozione di “grazia”. Il fatto che ogni creatura sia condotta, dalle leggi del Cosmo, alla meta unitaria, non significa che nell’illusorietà del divenire non vi sia un processo che a quella meta conduce, e che questo processo si avvalga della volontà, della dedizione, della Via per essere percorso in modo accettabile e vivibile da ognuno.
La nostra volontà, l’impegno, la sequela della Via non sono necessarie per giungere all’Unità ultima, sono necessarie per stare nel processo illusorio del divenire senza schiattare.
La Via non accelera, temporalmente, il processo unitario per la semplice ragione che il tempo è del tutto soggettivo e irreale, ma rende il nostro terreno interiore fertile e ricco di humus: questa fertilità non dà a noi ciò che non offre al pigro, semplicemente ci mette nella condizione di procedere con un tasso di sofferenza minore e questo perché la sofferenza è inversamente proporzionale alla conoscenza/consapevolezza/comprensione.
Alla meta giunge anche l’assassino, come noi, ma con un itinerario verosimilmente più complesso e doloroso. [/uma]
Non c’è un momento di partenza, per cui da quel punto in poi la vita ha senso*, e tutto ciò che precede è da buttare: all’essere non manca nulla, non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere.**
[→uma] *In realtà chiunque di noi, man mano che acquisisce comprensioni, vive come un reinizio in certi passaggi esistenziali: il passato con il quale ci eravamo identificati ci sembra definitivamente superato e sentiamo di poter iniziare su basi nuove, questo in virtù di comprensioni che si sono aggiunte al nostro sentire: un sentire più ampio apre a nuove visioni e a un nuovo livello di esperienze, e conduce ad abbandonare naturalmente certe disposizioni del passato.
**“All’essere non manca nulla, non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere”: questa affermazione, così usuale nello zen è perfetta quanto profondamente limitata.
Perfetta se parliamo della realtà dell’essere contemplata dove tutto è Ciò-che-È, e ogni aspetto suo e della sua manifestazione è semplicemente Ciò-che-È e non c’è nulla che possa essere detto o aggiunto o tolto.
Profondamente limitata se lo sguardo è a partire dal divenire: la realtà di ciascuno – e lo stesso essere – sono generati dal sentire di coscienza il quale, per sua natura, “proviene da e tende a”, ovvero è interno a un programma che attraverso molteplici fusioni lo conduce all’unità col Tutto. Questo sentire non è mai stabile, è costituito in modo da attivare processi e se c’è processo non si può dire: “All’essere non manca nulla, non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere”.
Certo, un dato grado di sentire, preso come realtà a se stante, è Ciò-che-È, questo è evidente, ma allora stiamo parlando di contemplazione, di Essere, non di divenire. [/uma]
Nulla è fuori dall’essere: non è circoscrivibile a questa o quella esperienza, a questo o a quel modo di credere, a questa o quella pratica religiosa. Però non posso dire che per me non c’è inizio: infatti se non mi metto davanti alla mia vita senza maschera e senza specchio, se non sto nel cuore della domanda («Questo che cosa è che viene così?») senza la risposta in tasca, io non sono quello che sono. Ma non sono io che comincio a far essere l’essere così come è: è già, qui, nel bel mezzo della mia vita.
[→uma] Ancora una volta dipende dal livello dello sguardo, se contemplativo o immerso nel divenire: io come soggetto semplicemente non esisto; io come coscienza genero il reale in relazione alla consapevolezza che ho del sentire che mi costituisce, consapevolezza tanto più ampia quanto più il sentire è strutturato: un sentire ampio contempla il reale e coglie la sua dimensione di Essere e la sua immutabilità. Un sentire limitato è come un bambino di fronte alla vita, quel sentire impara l’Essere, impara a farlo divenire esperienza step dopo step. [/uma]
«Sappi che dentro ogni cosa che è c’è il tutto che vive: lì ti visita la gioia e lì t’imbatte la difficoltà. Quando comprendi così ogni cosa che è, allora ogni cosa che è diviene corpo limpido e liberazione».
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?