All’udire la parola natura autentica la maggior parte di coloro che studiano la via di Budda ne perverte il senso nell’io come è inteso nella via deviata di Senika.[1]
Questo consegue dal non incontro con l’altro né con se stesso e dal non riconoscere il maestro. In modo insipiente, da come tira il vento del cuore, della volontà, della cognizione, deducono la conoscenza e la realizzazione del risveglio della natura autentica.
[→uma] Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque. [/uma]
Chi ha mai detto che la natura autentica consiste nel conoscere e realizzare il risveglio? Anche se coloro che si risvegliano e conoscono sono i vari budda, → la natura autentica non consiste in conoscenza e realizzazione del risveglio. In altre parole, il risveglio e la conoscenza che qualifica come vari budda coloro che si risvegliano, non è il risveglio e la conoscenza chiacchierato da costoro che hanno una visione pervertita né è risveglio e conoscenza del distinguere il male così e così, né è il risveglio e conoscenza di come tira il vento. Piuttosto è l’uno e l’altro volto dei budda e dei patriarchi: questo è risveglio e conoscenza.
[Carl Bielefeldt traduce] Molti praticanti hanno erroneamente pensato che fosse la stessa cosa del “sé eterno innato” non buddista degli Shrenikans (seguaci di Snika, ndr). Questo perché non sono ancora diventati “tale persona”, o non sono in accordo con il loro Vero Sé, o non hanno incontrato un vero Maestro.
Inutilmente, essi considerano la loro mente, la loro volontà o la loro coscienza, che sono costantemente in movimento come il vento e il fuoco, come la percezione e la comprensione della loro Natura di Buddha.
Chi ha mai detto che nella Natura di Buddha ci sia qualcosa da percepire o comprendere? Anche se le persone che l’hanno percepita e compresa sono dei Buddha, → la Natura di Buddha è al di là di qualsiasi cosa che percepiamo o comprendiamo.
[Gudo Nishijima, Chodo Cross traducono] Molti studenti hanno frainteso che fosse come il “Sé” descritto dai Senika non buddisti. Questo perché non incontrano le persone, non incontrano se stessi e non incontrano un maestro. Essi considerano vacuamente la mente, la volontà o la coscienza – che è il movimento del vento e del fuoco – come la conoscenza illuminata e la comprensione illuminata della natura di Buddha.
Chi ha mai detto che la conoscenza e la comprensione illuminate sono presenti nella natura di Buddha? Coloro che realizzano l’illuminazione, coloro che sanno, sono buddha, → ma la natura-buddha è al di là della conoscenza e della comprensione illuminata.
[→uma] La traduzione di Forzani-Mazzocchi ha passi oscuri, vedremo di chiarire quando affronteremo il commento al capitolo 3. Mi sembra che la frase chiave sia: “la natura-buddha è al di là della conoscenza e della comprensione illuminata” (Nishijiama); “la natura autentica non consiste in conoscenza e realizzazione del risveglio” (F-M).
Come abbiamo detto altrove, la natura autentica è per noi l’equivalente del sentire strutturato, sentire che contiene ogni grado di sentire relativo: è anche, nella nostra visione, la dimensione coscienziale di “Essere”.
Ma per Essere cosa intendiamo? Spero che l’infografica che segue possa essere di aiuto.
[Continua Forzani-Mazzocchi] Sovente nell’antichità, dall’epoca della dinastia Han T’ang a quella di Sung[2], le persone virtuose che solevano pellegrinare in India, oppure guidare gli uomini fino al cielo, erano numerosi come le spighe di riso, le foglie di canapa, i fusti di bambù e gli steli d’erba degli stagni. La visione errata dei nostri tempi risale, ah! che cosa triste!, al sovvertimento nel modo di apprendere la via da parte di molti di loro, i quali interpretavano conoscenza e risveglio della natura autentica come l’agitarsi della fiamma al vento*.
*[Tollini commenta così questa frase] Cioè la conoscenza della realtà condizionata come la conoscenza della vera realtà. Ovvero, di considerare la realtà condizionata come la realtà ultima.
[Dal commento di Jiso Forzani] Così è inevitabile che, sentendo parlare di natura autentica, tutti, oggi come ieri, si sia portati a pensare che si tratta di una specie di essenza nascosta dentro di noi, immutabile ed eterna, forse sopita ma che un giorno verrà alla luce e risplenderà: il nostro vero io, la nostra anima immortale, individuale e unica, che ci contraddistingue per l’eternità. Un’idea del genere il più delle volte non nasce da una comprensione diretta e personale della verità, ma da un desiderio, unanimemente diffuso, di dare in qualche modo continuità a me stesso, oltre i miei limiti costitutivi.
[→uma] La questione è complessa perché esistono due piani di comprensione della natura autentica: uno relativo alla dimensione antropologica, alla reale natura dell’umano, un altro accessibile all’esperienza contemplativa.
Dubito si possa continuare a fare finta che non esista la questione della natura di ciò che chiamiamo il “vivente”: siccome Dogen si è scagliato contro la conoscenza esoterica allora continuiamo questo gioco a chi è più cieco e ci rifiutiamo di approcciarci al reale utilizzando più strumenti e paradigmi.
Nel Sentiero, coltiviamo il duplice sguardo cui accennavo:
– la natura autentica è Essere, intendendo con questo termine quanto rappresentato sommariamente in questa infografica;
– la natura autentica è Essere sentito, abisso d’esistenza e d’Essenza sentito dal contemplante.
La duplice conoscenza di Essere per noi procede in simultanea: naturale ci risulta l’indagine contemplativa, naturale il descriverla all’interno di un paradigma: le due conoscenza si alimentano, come è facile comprendere, vicendevolmente e questo per la semplice ragione che tutti gli aspetti del reale procedono assieme: più comprendi, più conosci; più conosci, più comprendi. Più il sentire si amplia, più il paradigma interpretativo si fa complesso e sofisticato.
[Dal commento di Jiso Forzani] Piuttosto che riconoscere la realtà di vita e morte più profonda e insondabile di tutte le possibili spiegazioni e interpretazioni in proposito, e invece di affidarci a questo più profondo, preferiamo convincerci che esiste una spiegazione o una dottrina che racchiude il senso intero della vita e morte, e che vera religione sia quella che mi dà le chiavi di quel tipo di comprensione.**
**Comprendo ma non condivido: l’umano sperimenta e spiega da sempre e lo farà sempre. Il contemplante sente ma siccome non è un beota, spiega anche, per quel che può. Perché accade questo? Per una ragione semplicissima: la contemplazione è atto del sentire che coinvolge l’interezza dell’essere, mentale, astrale, fisico compresi. Intuizioni e sentire attraversano il sentire, il pensare, il provare, l’agire e producono effetti; quegli effetti attraversano a ritroso tutti i corpi per divenire nuovo sentire più ampio, corroborato e ampliato dalle esperienze compiute sui vari piani: è un circuito che dall’akasico (coscienza/sentire) giunge ai corpi transitori permettendo esperienza e la risultante di questa esperienza, che non è altro che vibrazione, torna al sentire/coscienza/corpo akasico e lo nutre, amplia, struttura.
Questo è il ciclo fisiologico di ogni costituzione umana, il ciclo vibratorio. Dobbiamo accontentarci dell’approssimarci al mistero? Parlare indistintamente di esperienze mistiche? Di una ignota e oscura profondità?
Dobbiamo evitare di nominare e sistemare le conoscenze e comprensioni che acquisiamo in ambito più specificatamente spirituale autorizzandoci a spaccare un capello in quattro quando parliamo di dimensione fisica, stendendo su tutto il resto il velo dell’ignoranza? E questo perché temiamo la conoscenza esoterica e ci confiniamo in quella superficiale ed essoterica? Direi che questo è veramente innaturale, illogico, determinato dalla paura o non so da cosa.
La fede/religione (termini che usa Jiso e chi io non amo) è un indistinto esperienziale e tale deve rimanere?
A esse si addice la genericità, la fumosità perché l’unica cosa che conta è la fede e se ci metti l’esperienza e la conoscenza al centro non c’è più la fede?
È un idolo la fede?
Nel Sentiero definiamo fede il fuoco che arde nell’intimo e che conduce l’intero essere verso l’unificazione.
Pertanto quel fuoco genera processi e tra questi anche il processo della conoscenza, della consapevolezza e della comprensione, il processo che è la madre di tutti i processi.
Cos’è la fede senza ciò che produce? Cristallizzazione. La fede innerva invece la conoscenza, innerva la consapevolezza, innerva la comprensione perché è il richiamo della natura autentica che a mille livelli differenti chiama a sé, cattura a sé.
Non possiamo dire cosa sia la natura autentica? Dobbiamo lasciarla nell’oscurità dell’ignoranza?
Beh, per quel che ci è dato, noi ci proviamo:
– è l’abisso d’Esistere che il contemplante sperimenta e sente nella sostanza dei suoi corpi;
– è l’abisso d’Essere che attraversa e plasma il contemplante rendendo nuova – nel fuoco dell’esperienza – la sua percezione di sé e del Reale, la sua interpretazione dell’infinitamente piccolo come dell’infinitamente grande;
– è l’abisso del Creare, dove il contemplante sente di essere creatura e creatore, simultaneamente: creatore di se stesso e del reale, creatura di se stesso in un circuito senza tempo dove tutto accade secondo le logiche interne al sentire, quel sentire che è Uno eterno e immutabile e all’Uno tutto conduce ciò che appare divenire.
[1] In giapponese Seni, in sanscrito Senika. Si tratta probabilmente di un monaco indiano, da cui ha preso nome la cosiddetta eresia, così come l’arianesimo prende nome da Ario. È il riemergere nel pensiero buddista di quella visione indiana che Budda ha messo in crisi più di ogni altra. Secondo questa visione in ogni essere umano vi è un nucleo essenziale (atman) eterno, immutabile e a sé stante che rappresenta la parte non caduca dell’uomo, mentre tutto il resto è transitorio e perituro. Scopo della via religiosa sarebbe quindi liberare questo nucleo dal rivestimento mortale, in modo che possa ricongiungersi con la sua matrice (brahman) senza più ricadere nella transitorietà (samsara – incarnazione). La liberazione assume quindi tratti del tutto personali e individuali.
Il risveglio di Budda, invece, è divenir coscienti che tutto partecipa della vita eterna e universale, anche ciò che noi sperimentiamo come transitorio e perituro, e che la distinzione in nucleo essenziale e rivestimento mortale è frutto di una visione parziale e a sua volta destinata a passar via, così come la separazione di un individuo da tutto il resto dell’esistente. Budda afferma allora che l’atman individuale separato non sussiste (anatman) e che proprio nel rendersi conto di questo non sussistere consiste la liberazione: qui, nel samsara, si rivela, si manifesta e si sperimenta la realtà piena e definitiva di ogni essere in comunione con tutto (nirvana). Doghen parla dell’eresia di cui sopra anche in Bendowa -Il cammino religioso, alla domanda numero 10 (vedi pag. 46 e segg. dell’omonimo libro dell’edizione Marietti – 1990).
Diatriba che ha attraversato i millenni e su cui ci sarebbe molto da dire ma ci porterebbe lontanissimi: nei commenti che inserisco nel testo porto la sintesi e la comprensione del Sentiero.
[2] La dinastia Han si divide in Han anteriore o occidentale (206 a.C.- 8 d.C.) e in Han posteriore o orientale (25 d.C.- 220). La dinastia T’ang durò dal 618 al 907; quella Sung si divide in Sung del nord (960 – 1126) e Sung del sud (1127 – 1279), coprendo così il periodo della permanenza in Cina di Doghen.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?