[→uma] Gli interventi successivi del curatore non intendono commentare o integrare quanto affermato da J.F.: sono inserti che sorgono dai temi proposti ed esprimono la visione e la tensione che attraversa il curatore e, immagino, ogni monaco del Sentiero. Se le parole di Jiso sono il suono della campana, le nostre sono il suo riverbero in noi: una situazione contemplativa, dunque. [/uma]
Una delle cose più difficili per noi, esseri umani, è cambiare mentalità, una volta che questa si sia radicata dentro di noi. Ciò è particolarmente vero quando quella mentalità non è suffragata da un’esperienza personale o da una conoscenza diretta e approfondita, ma si basa sul comune sentire, sull’opinione diffusa, sul fatto che tutti la pensano così, senza che ci si preoccupi di considerare se quel comune sentire ha fondamento nella verità oppure no. Spesso siamo più disponibili a dubitare della nostra personale esperienza che a mettere in forse l’opinione generale, il comune sentire.
Questo meccanismo dovrebbe essere estraneo al percorso religioso, che è quello in cui un individuo penetra nel senso profondo della propria vita oltre le apparenze e il sentito dire, sperimentando in prima persona. Invece, è proprio nel campo religioso che quella mentalità spesso prende piede e si radica: nell’impossibilità di basarsi su prove certe di tipo scientifico (altrimenti che fede sarebbe?) si tende a fidarsi del buon senso generale.
Così è inevitabile che, sentendo parlare di natura autentica, tutti, oggi come ieri, si sia portati a pensare che si tratta di una specie di essenza nascosta dentro di noi, immutabile ed eterna, forse sopita ma che un giorno verrà alla luce e risplenderà: il nostro vero io, la nostra anima immortale, individuale e unica, che ci contraddistingue per l’eternità.
Un’idea del genere il più delle volte non nasce da una comprensione diretta e personale della verità, ma da un desiderio, unanimemente diffuso, di dare in qualche modo continuità a me stesso, oltre i miei limiti costitutivi. Questo desiderio è presente in ciascuno, perché è una forma del desiderio di vivere, di non morire: per questo quell’idea di anima immortale personalizzata ha così successo e viene accettata quasi da tutti, senza rifletterci troppo, quando una visione religiosa la propone. Viene presa per buona perché è doppiamente consolatoria: garantisce in qualche modo durata eterna a io come mi riconosco ora, e fa rientrare dentro parametri di valutazione familiari qualcosa che invece sembra voler sfuggire ai criteri consueti: fa ricadere dentro l’ambito della conoscenza e comprensione qualcosa che per sua natura è invece oltre quell’ambito, o quantomeno non è delimitata da esso.
Piuttosto che riconoscere la realtà di vita e morte più profonda e insondabile di tutte le possibili spiegazioni e interpretazioni in proposito, e invece di affidarci a questo più profondo, preferiamo convincerci che esiste una spiegazione o una dottrina che racchiude il senso intero della vita e morte, e che vera religione sia quella che mi dà le chiavi di quel tipo di comprensione. Così facendo crediamo di ampliare le nostre facoltà spirituali, mentre rendiamo più angusta la nostra concezione della verità.
Oggi (anni ’90, ndr) sembra più che mai difficile affrancarsi da questo tipo di mentalità basata sul senso comune. Paradossalmente, l’epoca che più di ogni altra tiene formalmente in gran conto le libertà individuali, è quella che produca la più impressionante omologazione di pensiero e di valori della storia del genere umano. Forse stiamo dimenticando che libertà è una parola indeclinabile, singolare, unica: quando la si declina, al plurale, comincia a declinare.
Comunque è innegabile che oggi più che mai si afferma un modello di educazione di tipo catechistico, per formule date e risposte preconfezionate: basti pensare al modello dei nuovi test scolastici. Se questo sistema è pernicioso per un educazione umanistica, che è prima di tutto educazione a pensare in prima persona, e non educazione a rispondere giusto, esso è addirittura deleterio per un’educazione religiosa, che dovrebbe essere educazione al rapporto diretto e bruciante con la verità stessa. Non ha importanza da quale catechismo attingiamo le nostre formulette, accattivanti o impressionanti che siano: un catechismo vale l’altro, e non sarà certo sostituendo quello cattolico con quello buddista o viceversa che cambierà qualcosa di radicale nella nostra vita.
Finché non accettiamo di navigare in mare aperto, senza vedere la terra, finché non troviamo in questo viaggio la nostra dimora, non stabiliamo quel rapporto personale, diretto e indelegabile, con il mare della nostra vita, con la terra della nostra vita, che si chiama religione. Questo è il vero darsi da fare, che non si risolve nella risposta giusta o sbagliata. «La natura che partecipa di Budda bagna l’altra sponda, bagna questa sponda»: l’altro versante, l’altra riva che Budda ci indica non altra rispetto a questa, non è quella giusta rispetto a quella sbagliata. È totalmente altra proprio perché non si riconosce in questa dicotomia fra questa e altra che regola la valutazione e la conoscenza mondana.
«Ogni cosa che è non è frantumata nelle cento cose, né consiste in una solida sbarra di ferro. Non è il grande, non è il piccolo, perché è come scuotere il pugno chiuso, che è intero indipendentemente dalla sua misura. Già ora si chiama natura autentica, e quindi non è nel voler mettersi spalla a spalla con i santi, e neppure nel fare paragoni con la natura autentica stessa».
Non c’è una dottrina monolitica da usare come pietra di paragone, come unità di misura per sondare la profondità della vita, ma neanche la si esaurisce affidandosi alla casualità del momento, andando dietro alle singole minuzie con la pretesa che ogni cosa comprende tutta la verità. Dicendo infinitamente grande o infinitamente piccolo non aggiungiamo niente al vero: la semplice immediatezza di un pugno chiuso, che è un intero quale che sia la sua grandezza relativa, dice meglio dell’asserzione più ricercata.
Se abbiamo l’occasione di osservare un bambino piccolo, di un paio di mesi, noteremo che passa buona parte del suo tempo di veglia a guardarsi il pugno chiuso davanti agli occhi: sembra essere uno dei primi rapporti autonomi con la realtà. Osservandolo mentre si guarda il pugno con tutta la concentrazione di cui sono capaci i bambini neonati, si intuisce che quel pugno, per me piccolissimo, è per lui una totalità oltre ogni misurazione, perché è assorbito completamente in quel rapporto senza che avanzi spazio per null’altro. Ecco il rapporto con il tutto che vive che chiamiamo natura autentica.* Non ha nulla a che fare con il raffrontare se stessi a esempi illustri da emulare, o con arzigogolare teorie circa la natura autentica.
[→uma] * Per usare l’immagine di Jiso, il neonato osserva il pugno conoscendo/consapevolizzando una parte del reale.
Quel conoscere/consapevolizzare il pugno credo che sia interno a un processo di dispiegamento della consapevolezza, credo anche che sia il primo passo della consapevolezza, la base.
Ciononostante, per il bambino, quel pugno è Ciò-che-È, che sia l’inizio o no del viaggio della consapevolezza.
È Ciò-che-È perché è totalità dell’adesso e quando si associano totalità e adesso è sempre Ciò-che-È.
Mille altre profondità di consapevolezza sorgeranno ma non sarà questo l’importante perché ognuna di esse, qualunque sia la profondità di sentire che libera, è totalità ed è adesso, questo rende ognuna Ciò-che-È, flash di Essere eterni e immutabili.
L’esempio del seme è particolarmente adatto alla metafora religiosa: è presente nel Vangelo, come nei testi buddisti. Certo, dal seme si produce tutta la pianta che darà i suoi frutti che contengono il seme. La circolarità della vita è sotto gli occhi di tutti. Ma essa avviene perché ogni istante, ogni situazione, tutto, uno per uno è cuore palpitante. Se il seme non muore, non trasmette la vita dice il Vangelo; se il seme non fosse tutta la vita, non potrebbe trasmetterla, dice lo Zen. Noi pensiamo che il valore della vita consista nel far fruttificare il seme. Questo riguarda la nostra responsabilità, il nostro impegno, la nostra dedizione.
Ma c’è qualcosa che precede, un fondamento che non dipende dal nostro impegno, dal nostro senso di responsabilità, dalla nostra dedizione ma da cui anzi questi dipendono. La vita non ha senso perché noi glielo diamo, bensì noi, con il nostro operare, le riconosciamo il senso che ha:** questo è il seme che dà frutto. Il quale seme esprime come seme tutto il significato della vita, così come il bambino appena nato esprime tutto il significato pieno della vita tanto quanto l’adulto maturo e il vecchio prossimo alla morte.
[→uma] ** Jiso afferma che tutto sta nel riconoscere il senso che la vita già ha. Il vivere è dunque scoprire/sentire e manifestare la natura autentica: è così? Ho seri dubbi.
Parafraso: la vita non ha senso perché noi glielo diamo, lo ha in sé e noi lo scopriamo/sentiamo. È questo che sperimento? Solo in parte.
La contemplazione dell’Essere libera l’intima natura dell’Esistere, dell’Essere, del Generare: questa contemplazione ci porta nel cuore profondo del sentire, nel suo nucleo più vasto, nel Sentire Assoluto, oserei dire, là dove ogni sentire esistente risiede in unità.
Il divenire del sentire, il suo evolvere per successive fusioni è terminato, questo è il porto ultimo: nulla più diviene, Tutto È.
A questo si è giunti attraverso lo sperimentare nei mondi transitori prima, nel mondo del sentire poi: tutto portava qui e questo è il Disegno che regola l’Esistente. Questo senso del divenire l’Essere abbiamo compreso vivendo e a esso ci siamo accordati.
Questo è quello che ci appare come il senso ultimo di tutto: “le riconosciamo il senso che ha” dice Jiso, è dunque implicito che un senso lo abbia, concordate?
Qui sorge un problema: il Tutto-Uno non può avere un senso, deve necessariamente essere oltre senso-non senso. Se per logica non si può non affermare questo, allora bisogna vedere se questo è sorretto anche dall’esperienza contemplativa.
In quali abissi si inoltra lo scandaglio del contemplativo, dove riesce a portare i suoi sensori?
Come dico nel paragrafo iniziale, queste parole del curatore non sono commenti o integrazioni a quanto Jiso afferma, sono risonanze: ecco, la mia esperienza personale – dunque nulla di oggettivo – mi dice che il contemplante impatta ben presto, quando si inoltra negli abissi, nella questione del non-senso: tutto ha senso fino a una data discesa nell’abisso, fino a un sentire particolarmente rarefatto, ma oltre quello viene avvertita totale assenza di senso.
Non credo che la questione possa essere risolta, credo invece che l’inequivocabile sentire il non-senso sia il segno che al Tutto-Uno ci siamo approssimati: tutto ha senso e conduce a qualcosa fino a un certo punto, poi tutto È oltre senso e non senso, non riducibile a nessuna categoria umana o sovrumana, tantomeno a quella del senso che ci ha accompagnato lungo tutto il peregrinare. A questo punto la ricerca di senso che ci ha dato vita risulta effimera e inconsistente, vana e vacua.
Nel non-senso tutto scompare e il contemplante deve misurarsi con un abisso di ben altra natura, ora.
Nemmeno di sentire si può più parlare ed è chiaro, limpido, che è finita ogni ricerca, ogni contemplazione.
È il Grande Boh di cui parla la Via della Conoscenza, è lo scacco ultimo ed è giusto che sia così.
Questo è il porto ultimo, l’assenza di porto. [/uma]
Il cuore palpitante della vita palpita gratuitamente in ogni istante e circostanza della vita.
«Senza neppure comporli appositamente, un piccolo numero di rami sfoggia un grande cerchio».
Il cerchio è la forma perfetta, cui tutto tende per sua natura: i rami di un albero tendono a disporsi in cerchio, una goccia d’acqua che cade nell’acqua forma perfetti cerchi concentrici fino a quando non incontra un ostacolo, i pianeti e le stelle tendono a muoversi in cerchio finché la reciproca forza di attrazione non ne modifica il movimento… Ogni condizione è condizionata da tutte le altre, e nello stesso tempo vive fino in fondo la propria natura incondizionata: questo è la natura autentica. «Tutto vive la stessa vita, tutto muore la stessa morte; è lo stesso ogni cosa che è che diviene natura autentica».
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?