Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
❓ 15 «Nel canone sistematizzato dell’insegnamento di Śākyamuni, troviamo la seguente teoria. Nel periodo di 500 anni successivo alla vita di Śākyamuni, mettendo in pratica senza alterazioni quanto egli aveva insegnato, si poteva certamente dimostrare palesemente, nei fatti, la validità di quell’insegnamento.
Nei successivi 500 anni, tanto la teoria quanto la pratica sussistono a livello formale ma non è più possibile palesarle come forma vivente; trascorso questo periodo, da allora in poi, per sempre, è rimasto soltanto l’insegnamento teorico, la pratica scompare e con essa, naturalmente, viene definitivamente meno la possibilità che l’insegnamento agisca in modo vitale nella vita quotidiana.
Stante questa suddivisione, noi ora ci troviamo nel terzo periodo49, quello in cui si conserva l’insegnamento formale ma vien meno la pratica vera e propria. In tempi del genere, facendo zazen, è mai possibile dare veramente vita all’insegnamento di Śākyamuni?»
49 Seppure Dōgen la rifiuti, la credenza di trovarsi nell’epoca degenerata era molto diffusa nel Giappone dei suoi tempi.
Risposta «Questa classificazione delle epoche storiche è stata pensata da studiosi successivi, non vi è traccia di tale suddivisione nell’insegnamento originale, il quale, libero da simili problematiche marginali, consiste nel far coincidere me stesso che ora faccio zazen, proprio qui, così come sono, con il modo fondamentale del “sé” stesso*.
*In realtà, questa accoglienza di sé come si è nel momento presente, invece che essere l’accoglienza di quel che sono così come sono, adesso, è la pura trascendenza di quel che sono: l’ascolto, l’osservazione senza connotazione, senza giudizio, senza aspettativa ci conduce, in virtù della disconnessione e della non identificazione, ben oltre quel che siamo adesso nella nostra cifra umana, apparente e contingente.
Emerge la natura autentica in virtù della disconnessione da ciò che siamo: zazen ci libera dall’identificazione che è la cifra del nostro essere umani, è illuminazione in atto perché quella accoglienza incondizionata disconnette la cifra umana caratteristica, la sospende e fa risplendere il vasto e non condizionato.
Vasto e non condizionato che sorgono dalla disconnessione nonostante il corpo mentale e astrale, in zazen, continuino a essere attraversati da pensieri, sensazioni, emozioni: emerge il fondo dell’essere in virtù della disconnessione.
Non dunque “così come sono“, espressione che non vuole dire niente perché non dice della complessità che sono e crea un enorme equivoco: l’assassino che siede in zazen non è “così come sono“, disconnette l’assassino ed emerge la natura autentica sua. L’assassino appartiene al divenire, la sua natura autentica all’Essere, divenire ed Essere sono unità indissolubile ma conta, è determinante, su dove viene posto l’accento, su dove la consapevolezza prevalente si posa.
L’unità di Essere e divenire, se guardata dal punto di vista di Essere, se contemplata, rende l’assassino semplicemente Ciò-che-È; se guardata dal punto di vista del divenire consegna l’assassino al suo limite.
Zazen conduce all’unità, la realizza, ma non azzera la dinamica Essere/divenire, pone un accento su Essere: quando mi alzo da zazen il divenire diviene prevalente.
Mi si osserverà che se il divenire viene vissuto nella disconnessione e non identificazione, anche l’assassino scompare: certamente, questa è la realizzazione ultima, ma non fanno zazen solo coloro che sono realizzati, lo fanno anche coloro che quando si alzano da zazen ritrovano il loro limite perché ancora frequentano l’identificazione e il limite della soggettività.
Allora zazen è una sospensione della cifra umana e del suo peso, ma non necessariamente è il suo superamento: lo è finché si è seduti. È unità finché si è seduti, quando l’unità travalica lo stare seduti e diviene l’intera vita, allora è la natura autentica che si manifesta, è Essere che porta il divenire a un altro livello che poco ha a che fare con quel “così come sono“.
Certo, anche allora sono “così come sono” ma qui non dobbiamo raccontarci storie, ci sono molti modi di essere “così come sono“: quell’essere-come-si-è è la fine della necessità di divenire che identifichiamo con il realizzato e quello stato di realizzazione c’è ogni volta che siamo-quel-che siamo, che sentiamo quello stato d’Essere, ma la questione vera è l’estensione/permanenza di questo stato e per risolverla non basta il giochetto del dire: non c’è un prima, non un dopo, non l’estensione e permanenza di uno stato, c’è l’attimo senza tempo e quello conta (vedi l’ultimo paragrafo alla fine della pagina).
Chiaro che è così, chiaro che conta l’attimo eterno ma se non siamo dei neofiti, o se non siamo oscurati dalla dottrina, la questione della liberazione della natura autentica ha una portata molto più vasta e complessa.
Se così non fosse, beh, avremmo trovato la gallina dalle uova d’oro e tutto sarebbe semplice: ci sederemmo in zazen dodici ore al giorno e buonanotte a tutti e a tutto.
Tutto questo per dire che la realizzazione ultima è figlia di processi molto complessi che riguardano la strutturazione del sentire di cui la pratica dello zazen è solo un fattore contribuente.
L’insegnamento di Śākyamuni trasmesso da una persona a un’altra sotto forma di vita quotidiana concreta, sia fin dal primo zazen quanto nel caso che l’insegnamento sia divenuto chiaro per aver fatto zazen a lungo, è mettere in pratica e sviluppare con purezza la propria vita originaria. Quindi ognuno, così facendo, utilizza la vita vera di se stesso.
Per ciò che riguarda il fatto se io stia usando di questa vera vita in modo completo oppure no, avviene come quando si immerge una mano nell’acqua e subito si percepisce se è calda o fredda. In quel momento, in quel luogo, quella forma di essere, così come è, è vivere usando la pura vita originaria».
Molto appropriata e chiara l’analisi di Uma. Grazie