Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica.
❓ 16 «Il fondamento dell’insegnamento di Śākyamuni è vivere in modo autentico la vita dell’essere come essa è, quindi tale insegnamento è già, da sempre, nel proprio essere. In questo caso anche se non lo si cerca espressamente studiando gli antichi testi o facendo zazen, non vi è nulla che manchi. Allora la perfezione è essere a conoscenza del fatto che l’insegnamento di Śākyamuni è contenuto fin dall’inizio all’interno di sé. Stando così le cose, non è forse inutile seguire un maestro per ascoltare il giusto insegnamento o, a maggior ragione, fare zazen?»
Risposta «Questa domanda è completamente insensata, priva di contenuto. Se così fosse, qualunque essere dotato di discernimento dovrebbe comprendere l’insegnamento di Śākyamuni e non vi sarebbe nessuno che lo ignora. Bisogna invece sapere che il punto di partenza per mettere realmente in pratica con chiarezza l’insegnamento di Śākyamuni è, prima di ogni altra cosa, smettere di distinguere “io” considerato in base agli altri e “altro” considerato in relazione a me stesso. Se pensiamo al “sé” senza desistere da questo distinguere, e se il “sé” così inteso fosse identico al fondamento di Śākyamuni, non vi sarebbe stato bisogno che Śākyamuni tanto si sforzasse nell’insegnare e nel guidare gli uomini della sua epoca.
Proviamo a chiarire, tramite un esempio luminoso, in che modo gli uomini del passato avessero perfettamente assimilato l’insegnamento di Śākyamuni.
Un tempo, un monaco chiamato Hō’on Gensoku50, aveva l’incarico di economo generale del monastero di cui Hōgen51 zenji era abate e maestro. Una volta il maestro Hōgen gli chiese: «Da quanti anni vivi in questo monastero?” Gensoku rispose: «Sono nel vostro monastero da tre anni.”
50 In cinese Baoen Xuanze, IX-X secolo, della scuola Fayan, una delle 5 scuole del Chan, cfr. supra n. 15.
51 In cinese Fayan Wenyi (885-958), fondatore della scuola Fayan.
«Sei ancora giovane – disse Hōgen – come mai non mi hai fatto finora neppure una domanda riguardo l’insegnamento fondamentale di Śākyamuni?”.
Gensoku rispose: «Non ho alcuna intenzione di mancarvi di rispetto, ma, in passato, quando vivevo nel tempio di Seihō zenji, ho già compreso chiaramente tutto l’insegnamento di Śākyamuni. Non vi è quindi motivo per cui io riceva il vostro insegnamento».
Allora Hōgen disse: «Ascoltando quali parole di Seihō tu hai compreso l’intero insegnamento?». «Io – disse Gensoku – ho chiesto al maestro Seihō in che cosa consista il vero io della persona che pratica zazen; il maestro Seihō mi ha risposto ‘il fuoco va in cerca del fuoco’. Sentendo queste parole ho compreso chiaramente che l’insegnamento di Śākyamuni è in noi stessi».
«Questo insegnamento è veramente buono – disse Hōgen – però credo che tu non ne comprenda per niente il vero significato».
Allora Gensoku spiegò: «Possedendo il fuoco andare ancora in cerca del fuoco, è come andare ancora in cerca di sé pur senza dubbio avendo questo sé, questa è la mia comprensione». All’udire questa spiegazione Hōgen replicò duramente: «Come pensavo non hai capito nulla. Se l’insegnamento di Śākyamuni fosse quello che tu hai spiegato, non sarebbe stato tramandato nel modo giusto fino a oggi».
Udito ciò Gensoku, offeso e irritato, se ne andò immediatamente dal monastero di Hōgen. Strada facendo ci ripensò: «Hōgen zenji è un grande maestro con più di cinquecento discepoli. Se mi ha dato quell’indicazione, lo ha fatto senz’altro per un motivo fondato». Mutata così opinione, tornato da Hōgen, scusatosi, Gensoku chiese nuovamente: «Che cosa è il vero sé della persona che fa zazen?» Hōgen rispose: «Il fuoco va in cerca del fuoco*». Udite queste parole, per la prima volta Gensoku comprese la forma vitale e vivente dell’insegnamento di Śākyamuni.
*”Pratichiamo per manifestare l’Essere”, diremmo nel Sentiero. Siamo Essere nella dimensione senza tempo, nell’Eterno Presente, ma nel divenire lo conduciamo a consapevolezza.
Da questo esempio si comprende chiaramente quanto sia sbagliato pensare che io, così come sono, e l’insegnamento di Śākyamuni siamo uguali. Se il sé inteso nel senso di “me” relativo a un “altro” (la divisione fra sé e me credo il traduttore voglia intendere, ndr) fosse uguale all’insegnamento di Śākyamuni, allora probabilmente Hōgen zenji non l’avrebbe messo sull’avviso dicendogli ‘bada, tu non capisci’, né lo avrebbe istruito.
Quindi, quando si incontra un maestro per la prima volta, chiedendo subito il vero modo di mettere in atto la pratica, si fa zazen con tutto se stesso, evitando di giungere a conclusioni affrettate. La base dell’insegnamento di Śākyamuni diviene chiara unicamente grazie al nostro fare zazen».
[Interpretazione di Tollini] Alla tesi del monaco che formula la domanda, per cui non serve praticare, Dôgen risponde, che intanto ciò non è assolutamente vero, e poi che se fosse così semplice, Shakyamuni non si sarebbe preso il disturbo di predicare la dottrina. Quindi porta un esempio tratto dalla letteratura buddhista. Il rev. Soku che crede di aver compreso le parole del suo primo maestro.
Rev. Soku: ‘Cos’è questo io che apprende il buddhismo?’
Il maestro Seihô disse:’L’attendente del fuoco viene a chiedere del fuoco’”. Il fuoco stesso che va in cerca del fuoco, è come l’illuminato che va in cerca dell’illuminazione. Chi cerca ciò che già ha? Tuttavia, il rev. Soku non ha compreso appieno ed è rimasto alla sola apparenza della spiegazione. Quando Soku confuso chiederà spiegazione al maestro Hôgen egli ripeterà esattamente la stessa frase di Seihô.
[Gudo Nishijima, Chodo Cross traducono] Soku says, “I once asked Seiho: Just what is the student that is I? 92 Seiho said: The children of fire 93 come looking for fire.”
92 学人の自己 (GAKUNIN no JIKO). 学人 (GAKUNIN), student, was used by a student to refer to him-self. 自己 (JIKO) means “self.” So Soku’s question was “What am I?” → “Chi sono io?”
93 丙丁童子 (BYOJO-DOJI). 丙 (BYO or HEI), is the third calendar sign, read as hinoe or “older brother of fire.” 丁 (JO or TEI) is the fourth calendar sign, read as hinoto or “younger brother of fire.” The words “The children of fire come looking for fire” suggest real effort of a practitioner to pursue what is already there. 童子 (DOJI) means child.
→ Le parole “I figli del fuoco vengono a cercare il fuoco” suggeriscono lo sforzo reale di un praticante per perseguire ciò che è già presente.
[Continua interpretazione Tollini] A questo punto Dôgen semplicemente commenta che se il concetto secondo cui il nostro “io è di già il Buddha” fosse il corretto buddhismo, allora il maestro non avrebbe ripetuto le stesse parole di prima.
Forse la stessa frase può essere letta in modi diversi: 1. come una evidenza di assurdità (cercare ciò che già si possiede è cosa assurda e inutile, quindi perché mai farlo?), come fa il rev. Soku, oppure, 2. come una verità (cercare ciò che già si possiede è (continuare a) diventare ciò che si è, quindi è una azione positiva e sensata) come intende il maestro, ma questa non è che una ipotesi interpretativa tra le varie possibili. In questo secondo senso, “L’attendente del fuoco viene a chiedere del fuoco” è metafora del praticante che pratica avendo l’illuminazione, cioè colui che avendo l’illuminazione intrinseca pratica per attuarla.*
*Torna, inevitabilmente, il tema relativo alla natura dell’illuminazione, tema mai veramente chiarito. Ne ho parlato diffusamente nei post precedenti; in merito al “vero sè” del praticante e al fuoco che cerca il fuoco, aggiungerei: l’aggiunta dell’aggettivo “vero” e l’uso di sè invece che di io da parte di Watanabe procura problemi (il fatto poi che il curatore della seconda edizione del Bendowa italiano abbia tolto la maiuscola a sé, complica ulteriormente). Sia Tollini che Gudo Nishijima, Chodo Cross fanno riferimento al semplice io, senza connotarlo, questo rende più lineare la spiegazione: il praticante, pur essendo Essere, nella sfera del divenire cerca di divenirlo/viverlo.