La gente, nel passato e nel presente, continua a intendere l’espressione quando il tempo viene come se il tempo in cui si attua la natura autentica fosse sempre successivo del momento attuale.
Si afferma che, impostando la propria pratica in un certo modo, il tempo in cui la natura autentica si fa presente conseguirà in modo automatico. Finché non viene quel tempo, la natura autentica non si fa presente, anche se si va dal maestro per chiedere consiglio sulla via, anche se ci si ingegna nel cammino religioso. Il vedere così è ricadere nel polverone del mondo, è un inutile scrutare la Via Lattea. Tali persone, temo, sono seguaci dell’istinto naturale fuori della via.
[→uma] Dogen liquida ripetutamente un tema che, evidentemente, era ricorrente al suo tempo ma i suoi argomenti, agli occhi di chi usa anche un paradigma esoterico, sono abbastanza deboli. Ci torneremo e già qualcosa abbiamo detto commentando altri libri dello Shōbōghenzō.
Fatto salvo che il tempo della natura autentica è ora, ogni adesso è Quello, rimane la questione che questa comprensione si afferma in noi come credibile e sentita solo quando il nostro sentire ha raggiunto una determinata struttura e ampiezza; prima di questo tempo evolutivo nemmeno ci sogniamo il tema della natura autentica e del quando si manifesta. [/uma]
Il dire aspirare a conoscere la vera forma della natura autentica, in concreto, è mettere in atto ora il conoscere la vera forma della natura autentica. Dire osservare la relazione del tempo reale è conoscere la relazione del tempo reale. Se aspiri a conoscere la natura autentica, sappi che questa è la relazione del tempo reale. Il dire quando il tempo viene significa già il tempo viene, non c’è spazio per nessun dubbio. Se c’è un tempo in cui viene il dubbio è: “Vieni e restituiscimi la natura autentica”.
[→uma] L’esperienza della natura autentica, perché di esperienza stiamo parlando e non di altro, non può che avvenire nel momento presente perché la natura autentica è, per sua natura, uno stato atemporale: se siamo immersi con la consapevolezza nel divenire e nel discriminare non potremo contemplare alcuna natura autentica.
L’esperienza contemplativa, anch’essa per sua natura dal momento che ci conduce nell’essenza del presente, è fuori dalla scansione temporale: contemplare è precipitare nel senza tempo della natura autentica dell’adesso.
→ Non nella natura autentica di questo o quel fatto, o di quell’essere, nella natura autentica tout court.
Imposto questo tema che ci sarà modo di sviluppare più avanti: esiste la natura autentica di questo e di quello? O esiste, invece, un’esperienza della realtà libera dalla soggettività che definiamo natura autentica?
In questa seconda ipotesi la natura autentica è un livello della consapevolezza/comprensione/sentire di tutta la realtà che viene a presentarsi all’esperienza.
Nel momento presente, che sta a dire: nel senza passato e senza futuro, nel senza tempo, la consapevolezza – libera da ogni soggettività e da ogni dualismo – sente il reale che accade e lo sente a diversi livelli di profondità e di essenza – sente la natura autentica di quell’accadere, fatto, essere, e la sente perché in realtà sente tutto come natura autentica. La consapevolezza è sintonizzata, per fare un esempio, su una data stazione radio e tutto quello che sente è relativo alla natura autentica. Tutto questo per ribadire che la natura autentica è un piano della consapevolezza/comprensione/sentire. [/uma]
Sappi che quando il tempo viene vuol dire non attraversare invano le 24 ore. Quando viene è come dire già viene. Se il tempo è compreso come quando il tempo verrà, allora la natura autentica non arriva. Invece, se è compreso come quando il tempo già viene, questo è la natura autentica che si fa presente. Questo principio si evidenzia da se stesso. Insomma non c’è mai stato un tempo che non sia per sua natura il tempo che viene, non c’è natura autentica che non sia la natura autentica che si fa presente.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?