Che cos’è la mente per la Via della conoscenza? 1

[Sommario IA] La mente, per la Via della Conoscenza, non è solo intelletto, ma il processo tramite cui le capacità razionali vengono distorte da un egocentrismo che pone “l’io” al centro del mondo.
L’educazione promuove una visione dualistica, generando paura dell’alterità e del diverso, spingendo l’individuo a trasformare il non-noto in noto per sentirsi sicuro.

L’uomo struttura la propria identità sulla distinzione e separazione dall’altro, considerandolo come strumento per il proprio successo o come minaccia.
La mente diventa uno strumento giudicante ed etichettante, che interpreta l’altro secondo i propri schemi e bisogni, ignorandone la vera essenza.
La “mente ingannatrice” è caratterizzata dalla ripetitività di giudizi e aspettative (“dovrebbe essere”), creando un senso di insoddisfazione e sovraccarico.
Un diverso modo di essere interiore implica la quiete mentale, l’accettazione del presente (“ciò che c’è basta”) e la cessazione delle aspettative e dei giudizi. [/S]

Fonte: Via della conoscenza, comunicazioni fondanti riviste e aggiornate nel 2024.

   Un partecipante: Che cos’è la mente per la via della Conoscenza?

   Una voce: E che cos’è il pensiero? Che cos’è la memoria? Che cos’è il ricordo? Che cos’è il linguaggio? Sono tutti aspetti che definiscono la caratteristica comune a tutti gli uomini, ovverosia la capacità auto riflessiva, la capacità di ragionamento, quella di riconoscere ciò che si presenta davanti a loro e di attribuirgli un nome, una definizione e un aggettivo. Tutto ciò che giunge viene filtrato dall’attività sensoriale, decodificata attraverso il cervello, che poi il linguaggio rende comunicabile, perché stabilisce delle etichette e dei significati condivisi attraverso l’uso di parole.

Dunque, l’uomo è dotato di un intelletto che rende possibile la consapevolezza della propria attività psichica. Ma allora, quando nella via della Conoscenza si afferma che la mente inganna, che la mente tradisce, che la mente continuamente ripete i suoi trabocchetti e che si ripete, si ripete e si ripete, a che cosa ci si riferisce? Non all’attività intellettiva, razionale o intuitiva dell’uomo, ma al processo attraverso cui queste capacità vengono da lui stesso distorte e piegate a un dualismo per il quale è lui – come “io” – il centro del mondo intorno.

L’uomo fin da bambino viene plasmato dal processo educativo a una visione dualistica che si traduce in una modalità di considerare la vita, il mondo, l’alterità e se stesso. E così inizia a sviluppare il suo “io” dualistico e le sue attitudini dentro una società che pone come vincolo la paura, sia dell’alterità che del diverso: paura dell’incognito e del non-noto, paura dell’incerto e dell’imprevisto e paura di ciò che è non-governabile, non-controllabile e non-regolabile. Infatti, fin da bambini vi si insegna che non-noto e imprevisto possono mettervi in crisi e questo provoca in voi un’allerta e una continua difesa.

L’attività umana e la sua attitudine verso l’alterità è quella trasformare tutto ciò che è intorno a lui in noto, cioè già sperimentato, e questo lo porta a tradurre il non-noto il più rapidamente possibile in noto, per sentirsi rassicurato. L’uomo si sente a proprio agio quando la vita e l’alterità gli sembrano prevedibili, perché ha bisogno di proteggersi dal timore di sentirsi messo in discussione da ciò che è non-governabile e poco gestibile, sia riferito a un fatto, che a un rapporto; pertanto il suo sforzo è quello di arginare.

Fin da bambino, l’alterità gli è stata presentata come possibile minaccia, ma anche come possibile occasione al proprio sviluppo di conoscenze, al proprio successo e sovente anche al proprio percorso nella via interiore. Tutto questo rigidamente riferito a sé. Quindi, fin dall’inizio, gli si insegna a proteggersi e a promuoversi, per costruirsi una propria identità.
Ma l’identità si basa sulla distinzione e sulla separazione. Questo lo porta a strutturare, e periodicamente ristrutturare, la sua naturale capacità intellettiva e la sua psiche sulla base dei timori rivolti a ciò che è altro da sé, ma anche sulla base della necessità di sottolineare, e poi aumentare, le differenze fra lui e l’altro, poiché viene educato a proteggersi per difendersi dall’irriducibilità e dalla “scomodità” del mondo intorno a lui.  

E quindi l’uomo si rapporta con l’altro da sé in funzione propria, soprattutto nel percorso interiore, a volte come fosse un ostacolo, una minaccia e un vincolo, altre volte un’occasione per avvantaggiarsi e maturare. L’altro da sé diventa colui che gli serve o non gli serve, lo appaga o non lo appaga, gli piace o non gli piace. Ed ecco perché la base su cui poggia la relazione e l’attenzione verso l’altro è sempre la propria protezione, o salvezza, o successo; in questo modo sembra naturale considerare l’altro in funzione propria.

Il passo successivo è quello di costruire intorno a voi, sull’altro e su voi stessi, un continuo “dover essere”, in cui l’alterità dovrebbe essere così e non colà, voi stessi dovreste essere così e non colà e quell’evento non accadere in quel modo, ma in un altro. Avete inconsapevolmente strutturato la mente come strumento di ripetitività giudicante ed etichettante di ciò che si presenta davanti a voi, rendendo ciò che è frutto delle vostre interpretazioni e immaginazioni.
E utilizzando il pensiero, così come lo ingabbiate, tratteggiate anche l’altro da voi, mettendo al centro le vostre pretese e le affermazioni fatte, che si trasformano a poco a poco in certezze: e così l’altro da non-certo diventa certo, da non-noto diventa noto e poi scontato; e continuate a vederlo come noto anche nel suo naturale mutare, oppure a vederne le trasformazioni secondo i vostri schemi, e mai cercando di comprendere chi è davvero l’altro.

Questa diventa la mente, da voi strutturata e utilizzata in un’attività quotidiana di misconoscimento della profondità e dell’inafferrabilità dell’alterità. E anche se l’altro è un mistero, voi ne fate una conoscenza davvero superficiale; l’altro è semplicemente non-noto: non nel senso di non poterlo conoscere nelle sue abitudini, nei sui difetti e nelle sue capacità, ma nel senso che ogni definizione e ogni aggiunta che voi utilizzate per definire le sue caratteristiche e i suoi comportamenti vi porta sempre a riferirlo a voi: a come lo vedete, a come può cambiare, a come può comportarsi e a come può esservi utile. Mai a come è in sé, cioè per se stesso e non per voi.

C’è un diverso modo di essere interiormente, quando la mente dell’uomo diventa silenziosa perché placata; stiamo parlando della scomparsa dei “dovrebbe essere” applicati alla vita e all’alterità, perché si afferma il fatto che ciò che c’è basta.  
Muoiono tutte le scommesse, muore la pretesa di un “io” che si espande, muoiono quei pensieri che l’uomo fa diventare un continuo chiacchiericcio e un aggiungere di quello che “lo riguarda” a ciò che accade, che gli scorre accanto in un tenue sussurro, appare e poi scompare senza essere riconosciuto.

Tutto ciò che accade è semplice, proprio perché effimero e impermanente, mentre quello che trattenete dentro di voi come bisogno e come scommessa interiore è gravoso, perché sottolinea la mancanza e l’insufficienza in ciò che c’è.
Quel che vi agita e vi sovraccarica è il bisogno di giudicare, di valutare, di misurare, di definire come “dovrebbe essere” intorno a voi e poi di creare quello che non c’è, per aggiungerlo a ciò che c’è che mai vi basta. Eppure tutto è completo in sé: è piccolo, è semplice e porta pace e leggerezza. Continua

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Natascia

Mi colpisce il passo in cui si afferma che fin da piccoli si viene abituati al concetto di alterità, a volte sentita come minaccia, altre come opportunità. Questo processo di individuazione, sembra essere necessario al suo superamento nell’età di maggior consapevolezza o è possibile testimoniare un approccio più unitario di da piccoli?

Catia Belacchi

Non è l’attività intellettiva in sè che inganna, ma è il modo in cui l’uomo se ne serve, il processo con cui questa attività viene da lui distorta piegandola alle necessità del suo “io” che ragiona in modo duale.
Ho cercato di parafrasare il concetto che più di tutti mi ha colpito, pur nella chiarezza di tutto il post.

Leonardo

“Tutto ciò che accade è semplice, proprio perché effimero e impermanente, mentre quello che trattenete dentro di voi come bisogno e come scommessa interiore è gravoso, perché sottolinea la mancanza e l’insufficienza in ciò che c’è.”

L’umano che vive perlopiù sovrastato da questo meccanismo eccitatorio che è la mente si identifica perlopiù con questo stesso meccanismo, non concedendosi la possibilità di vivere il piccolo, minuto, effimero e impermanente

Nadia

Molto chiaro e più che condivisibile!

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