46. L’Amore/Compassione genera la legge del karma come strumento cardine per il governo del divenire: l’umano sperimenta ogni giorno quanto abbia bisogno di compassione e quanto di responsabilità personale delle cause che muove. Se avesse solo compassione, mai sarebbe di fronte alle scelte che compie e alle responsabilità che implicano; se non sperimentasse la compassione, non diverrebbe consapevole della perfezione che origina ogn scena.
Il contemplativo vede l’equilibrio tra compassione e karma, contempla l’azione di entrambi nel più minuto quotidiano suo e di coloro che costituiscono il suo ambiente. Contemplazione e karma lo interrogano ogni volta che deve decidere come reagire di fronte a scene che hanno un valore simbolico: sente in sé operare la compassione e allo stesso tempo la necessità karmica.
La decisione che prenderà avverrà dopo una macerazione perché non si tratta di sciegliere tra un modo sbagliato e uno giusto, ma tra due modi giusti: deve ascoltare in sé cosa prevale e solo sulla base di quell’ascolto profondo potrà decidere. Egli sa che l’Amore/compassione è preminente in sé e deve vigilare perché, con la scusante della necessità karmica, non si insinuino tracce di condizonamento soggettivo, ma deve operare anche secondo la giustizia richiesta nel momento. [25.1.25]
45. Oltre il sentire e la sua stratificazione si avverte un profondo, denso, vasto silenzio. [24.1.25]
44. Se cammini lungo la strada dell’eremo vedi quante creature sono intente a vivere con dedizione assoluta la loro esistenza: dai favagelli, alla senape, alla poiana. Così è per ogni umano: per quanto egli creda di non essere completamente dedito alla sua vita, in realtà proprio quella sta vivendo anche quando è distratto, svogliato, depresso. Ogni creatura vive quel che è, e non c’è scampo. [23.1.25]
43. Affinché vi sia contemplazione non basta la consapevolezza ordinaria di ciò che è in sperimentazione, occore una consapevolezza unitaria di tutti piani dell’essere. La consapevolezza di ciò che colpisce i sensi – consapevolezza ordinaria – è l’attivatrice della consapevolezza unitaria: il contemplativo sente chiaramente il passaggio dall’una all’altra nei termini di un cambiamento vibrazionale. [23.1.25]
42. La contemplazione è come un fuoco che brucia la carne, le ossa fino al midollo: solo il contemplante non occasionale può comprendere questo perché questo ardere e consumarsi solo nel tempo, nella routine mostra la sua azione profonda, il suo scavare, togliere, annullare, ridurre al niente. [22.1.25]
41. Per il contemplante la questione del “chi sono?” è inesistente. “Quale sentire affluisce ora?”, questo è invece reale ma non è una interrogazione, è il frutto di uno stupore quando è travolto dall’onda di piena. [19.1.25]
40. Il mito del gratuito (senza compenso richiesto) è anche il mito della centralità di sé, del “ho diritto”. È un mito che attraversa la cultura digitale quanto l’ambito spirituale e sembra incontestabile: ovunque viene proposto come valore alto, nobile.
Non è questa la mia comprensione. Chi lavora deve essere remunerato: deve lavorare a ritmi umani, rispettato nelle sue prerogative, fragilità, necessità e gratificato in modo da condurre una vita dignitosa. Tralascio l’argomento ovvio che ciò che non entra dalla porta entrerà poi dalla finestra, ciò che non è chiesto apertamente sarà ottenuto occultamente, come la vendita dei dati personali nei social e nei siti.
Qui mi interessa la pretesa della gratuità di servizi, strumenti, formazione, opportunità di conoscenza: identità bisognose chiedono opportunità ma non sono disposte a dare. Chiedono ma non danno. Identità altrettanto bisognose di qualcosa offrono ma non chiedono.
Eppure qualunque dinamica resiliente è basata sul flusso dinamico delle forze e sull’obbedienza alla legge dell’equilibrio: non c’è equilibrio nel gratis, non vedo circolarità di forze, vedo invece preminenza del personale bisogno e trascuratezza della fatica, dello sforzo, del costo altrui.
Se mi viene offerto qualcosa gratuitamente (gratis), mi chiedo, grato: come posso riequilibrare? Il pormi questa domanda mi educa, mi impedisce di mettermi al centro, mi rende evidente che sono in un sistema in cui centrale è il flusso delle forze e l’equilibrio.
È chiaro che il circuito della gratuità non esclude queste interrogazioni, ma la sua didattica pedagogica è fragilissima perché attiva un sistema distorto basato sul falso diritto. È lo stesso sistema che usiamo nei confronti della natura, dei suoli ad esempio. Nell’agricoltura tradizionale si nutre il suolo per nutrire la pianta, non in quanto suolo, dunque quel gesto di nutrire è egoistico.
Nel sistema della relazioni si chiede, quando non si pretende, e nulla ci mette di fronte alla nostro responsabilità: vuoi, ma cosa sei disposto a mettere in campo di te?
Mi si osserverà che la logica della gratuità, estensivamente intesa, rompe il meccanismo della dualità perché inserisce un imponderabile fuori dal nostro controllo e dalla causalità: l’atto gratuito ricevuto sempre ti spiazza.
Questa è la logica che muove le parole e l’azione del Cristo ed è la nostra meta interiore: agire senza interesse proprio, servire la necessità esistenziale dell’altro.
Ma questo apre un autentico mare di domande, prima tra tutte: qual è la pedagogia migliore per me e per l’altro se questo è il fine? La risposta, dal mio limitato punto di vista, è estremamente semplice: devono alternarsi ritmicamente le situazioni in cui gratuità e necessità di una qualche ricompensa si alternano, in modo che la consapevolezza rimanga sempre alta e quando beneficio di un gesto gratuito in me sorga riconoscenza, e quando debbo corrispondere una gratifica in me appaia chiara la comprensione del necessario dare.
Ricevere e dare debbono essere sentite come forze compenetrate e indissolubilmente legate dove l’una non vive senza l’altra: nell’unità di sentire che si crea, la formazione degli individui risulterà equilibrata. [19.1.25]
39. Contemplare la parola. Le statistiche dicono che un lettore su tre non capisce quello che legge, anche se semplice. Le ragioni sono ovviamente diverse ma a me qui interessa metterne a fuoco alcune e non riferite a lettori comuni, ma alle sorelle e ai fratelli di questa comunità.
1- La difficoltà a fermarsi
Non capisci e non comprendi quello che non vedi, non ascolti: non vedi e non ascolti perché sei come un treno ad alta velocità: non sei ancora capace di creare una frattura nel flusso dei fatti. Questo significa che il flusso è più potente della volontà di frattura a causa della troppa identificazione con esso e della scarsa coltivazione dell’attitudine alla frattura. Se guardi alla didattica passata del Sentiero comprendi perché certe ruvidezze sono state necessarie, stop bruschi per contrastare automatismi molto potenti.
2- La difficoltà a creare spazio disconnettendo
Chi corre crede che il correre sia una necessità, o un accidente che proviene da fuori per altrui responsabilità. È nella natura del correre annullare le pause ma senza pause non c’è vita, c’è solo pensiero sulla vita e centralità di sé: è nella pausa che si crea una frattura non solo nella sequenza dei fatti ma nella centralità di sé.
Chi non si ferma sul fatto presente e assoluto non riesce a disconnettere dalla narrazione di sé, il vero treno in corsa. La pausa rompe la narrazione, ogni narrazione perché, per sua natura, è assenza.
L’individuo che legge e non capisce/comprende è perché non vede/vive/ascolta/sente il reale, ma la narrazione di questo e la narrazione non vuole pause, vuole continuare indisturbata perché la pausa la disarticola e la rende non credibile.
3- La difficoltà a riconoscere il determinante di adesso
Immersi nella successione, nella replica di sé e della propria centralità, il fatto presente ed eterno non può essere sentito: non sentendo l’adesso, non si sente il suo messaggio esistenziale, non si comprendere cosa quell’adesso porta, cosa interroga, cosa mette in crisi: soprattutto si perde il Ciò-che-È.
Così operando non si sente il determinante che è in ogni istante e fatto e, smarriti e inconsapevoli, si reitera il meccanismo dell’andare sperando di farsi meno male possibile. [19.1.25]
38. “Sulla base di questa fondamentale disposizione (ascoltare per fare), l’ebraismo, e ancora di più il giudaismo, pone l’accento non su un sistema di dottrine, ma su un sistema di azioni. Queste azioni, l’esecuzione dei vari precetti, sono considerate fondamentali non perché abbiano un contenuto sublime (anche se alcune lo hanno, come «onora il padre e la madre», mentre altre non lo hanno, come quando si dice «non vestirai un tessuto misto di lana e di lino mescolati» [Dt 22,11]), bensì per la loro provenienza, cioè perché provengono da Dio.
In altri termini, i precetti non sono da rispettare perché in sé morali o per accumularsi dei meriti, ma perché Dio ha voluto così, quindi per semplice ubbidienza. Se c’è un merito nell’eseguire i precetti, è soltanto questo. (Paolo De Benedetti, Introduzione al giudaismo, Morcelliana)
Leggo in questi giorni, nei frammenti di tempo e quando la mente ancora è in grado di contenere qualcosa, la Teologia del Nuovo Testamento di Rudolf Bultmann, un classico da cui è difficile prescindere, ma anche nel Bultmann ritrovo sfumature di non comprensione in merito alla disposizione giudaica al rito come atto contemplativo di abbandono di sé e di adesione all’Essere.
Qui non importa nemmeno quanto il praticante creda, conta la sostanza del gesto che tante volte al giorno consapevolmente viene compiuto: abbandono me per obbedire. Questo è il fulcro di questa pratica, non ha alcuna rilevanza se il precetto venga dall’Assoluto, è irrilevante, alla fine: centrale è l’abbandonare sé, l’atto volontario e consapevole ripetuto centinaia di volte.
Ecco la ragione della moltitudine dei precetti in quella religione: conta il gesto figlio dell’intenzione – ovvero il ciclo completo da akasico a esperienza ad akasico – che riporta la consapevolezza sull’Essere, origine e fine del tutto. L’obbedienza a ogni precetto è un atto di disconnessione da sé e di abbandono all’Essere e questo avviene praticamente, con gesti, azioni, comportamenti che figliano da intenzioni interiorizzate e consapevoli e che generano un allineamento all’Essere duraturo e stabile. In cosa si differenzia dalla nostra pratica dello zazen?
Chiaramente c’è un rischio, e il Cristo l’ha evidenziato: l’ipocrisia. Lui non condanna la legge dei precetti, ma l’ipocrisia di colui che obbedisce e che nel gesto dell’obbedire formale sazia la propria egoità. Non è colui che sparisce obbedendo, è colui che è se stesso, obbedendo. La pratica diviene affermazione di sé, non dell’Essere vuoto di sé. [19.1.25]
37. Il pane quotidiano. Sia in Mt.6,11 che in Lc.11,3 c’è l’invocazione al Padre affinché doni il pane di ogni giorno: l’umano chiede e il Divino esaudisce e, se non esaudisce è perché l’umano è in una condizione di colpa.
È un antico schema duale ma dietro alla criticità della lettera si nasconde la reale sostanza: custodisci la cella esistenziale affinché da essa sorga il pane che ti nutre ogni giorno.
Non c’è, naturalmente, alcun Padre che dispensa pane quotidiano – esistenziale o altro che sia – ovvero non c’è alcuno al di fuori di noi che determini le scene del nostro vivere: questione ostica per l’umano che ama sentirsi vittima, dipendere o far dipendere. Il nostro pane quotidiano lo generiamo da soli, è responsabilità nostra e scaturisce da ciò che coltiviamo.
Dopo mesi di lavoro quotidiano sui post di Dōgen, siccome mi ero portato abbastanza avanti, sono passato ai nuovi post della Via della Conoscenza: dalle questioni inerenti la natura autentica – sebbene sempre le stesse e senza rilevanti stimoli nuovi perché, alla fine, Dōgen ripete sempre lo stesso tema – sono passato ai grovigli delle menti trattate nel dettaglio dalla VdC: un salto vibrazionale notevole, in alcuni momenti un essere schiantato a terra.
Il lavoro pomeridiano sui post che poi verranno pubblicati in questo sito, è il mio pane quotidiano, è la contemplazione della parola, del messaggio, del sentire dell’autore sul quale lavoro, è la coltivazione dell’Essere perché solo di quello che riguarda l’Essere – in modo diretto o indiretto – mi occupo.
In questi giorni mi rendo conto che occuparmi dei temi della VdC non mi fa bene, mi fa risiedere là dove non è più casa mia e, pian piano, costruisco un ambiente interiore non favorevole, non allineato a ciò che sento.
Non sono vittima di alcuno, da solo, per dovere, perché ho degli impegni presi, perché ritengo sia utile ad alcuni come a suo tempo lo è stato molto a me, sto costruendo una ambito vibrazionale interiore che mi colloca su certi piani d’esistere, all’interno di grovigli in fondo estranei, oramai. Mi auguro che nessuno dei pochi che mi leggono trovi in queste mie parole la scusante per evitare quei contenuti, scartandoli perché in me suscitano alcune perplessità: a costoro posso solo dire che se non sono capaci di mangiare il pane duro è giusto che alla fine non abbiano alcun pane.
Abbiamo appena valicato il nefasto periodo delle festività natalizie e di fine anno: ho visto monaci e postulanti del Sentiero immergersi troppo nel piano astrale, nelle relazioni, nell’esporsi inutilmente all’altro e alle situazioni. Ne ho visto e patito le conseguenze e mi auguro che il tutto sia di insegnamento: ogni eccesso su di un piano coinvolge l’insieme vibrazionale, lo condiziona e lo stravolge, distrugge il lavoro di mesi e di anni e impone una risalita a volte molto faticosa.
Il pane quotidiano ci nutre e ci avvelena, dipende che pane è, ma sempre è il pane da noi generato, non troviamo scusanti, non ci sono foglie dietro cui nasconderci. [19.1.25]
36. Scavavo un fosso lungo la strada, stamattina, e un cacciatore si è fermato a lungo a parlare costringendomi all’immobilità in mezzo al freddo e all’urgenza di concludere un lavoro iniziato da giorni. È una brava persona che conosco da tempo e ogni tanto parliamo dei molti problemi legati alla gestione dell’ambiente in cui viviamo.
Mentre parlava vedevo scorrere il campionario del pensiero dell’uomo semplice – non istruito ma curioso e informato – ricco di luoghi comuni, di sentenze troppo facili, di soluzioni draconiane a problemi complessi: osservavo, ma in me non sorgeva ribellione, solo una presa d’atto. Evidente era il contrasto tra una coscienza non rozza e un pensiero piuttosto primario, il simbolo di tanta umanità di oggi che affronta sfide molto difficili con una strumentazione interiore non adeguata.
La possibilità di contemplare la scena senza mettere in campo la mia soggettività, è stata la nota che ha attraversato tutto il tempo: più la contemplazione diviene la disposizione che ci costituisce, più i corpi transitori tacciono, meno si affaccia il desiderio di esserci e più profonda si fa la gioia di scomparire. [18.1.25]
Contemplazione quotidiana | 1 | 2 | 3 | 4 | 5 |
- NOVITÀ: File audio recenti in un canale Telegram dedicato
- Eremo dal silenzio, tutti i post dei siti
- Contemplazione quotidiana
- Le basi del Sentiero contemplativo
- Un nuovo monachesimo per i senza religione del terzo millennio
- Libro: ‘Il Sentiero contemplativo a dorso di somaro’
- Libro: ‘Come la coscienza genera la realtà personale‘
- La Via della conoscenza, nuova serie di post dal 15.1.25
Funzionale Sempre attivo
Preferenze
Statistiche
Marketing