Contemplazione quotidiana 4

56. Ci sono persone naturalmente sintonizzate sul “noi” e questa naturalezza la si riscontra non solo nell’apertura e nella disponibilità, ma la si avverte come intima e profonda disposizione: costoro sentono in termini di “noi”, dove l’interesse personale è parte di questo “noi”, parte spesso sacrificata per garantire l’insieme. Queste persone sono oltre la morsa “io”/”noi”, non c’è questo dualismo in loro perché il loro confine è labile.

Esistono invece altre persone, il cui impatto ho a volte molto patito nella mia vita, che vivono intensamente tra le ganasce di quella morsa e sentono che sono innanzitutto se stesse, il loro mondo, le loro priorità. Poi, certo, riconoscono anche un “noi” ma è sempre subordinato a sé.
Queste persone vivono in me come una ferita aperta, come un dolore attutito ma associato alla loro frequentazione: come la memoria di una estraneità che ho subito e non ho saputo gestire.

Sono consapevole che esse hanno avuto la funzione di svelare la mia necessità di essere riconosciuto e, attraverso questa, di sentirmi d’essere e d’esistere. Sono anche consapevole che il conoscerle mi ha permesso di comprende la distanza abissale da loro, nel divenire, naturalmente, perché nel sentire sono solo creature, atomi di sentire di un insieme mai separato. [18.2.25]

55. Ho la chiara e lucida consapevolezza che ogni gesto, parola, concetto, sentire provati non sono che un granello di sabbia su una spiaggia sconfinata. Questo produce in me una duplice reazione:
– perché scrivere ed elaborare, allora?
– nella dimensione della Coscienza Cosmica in cui siamo incastonati, zero conta il senso di “io” ma certamente ha una motivazione l’irripetibile originalità personale.

Alla prima reazione – che sorge dallo sconcerto – reagisco con la disposizione di chi sa di essere irrilevante e di certo non vive perché ha una funzione, ma vive perché semplicemente accade, aldilà di ogni logica di servizio e di funzionalità. Vive perché è un grado di sentire, e questo basta.

Alla seconda reazione corrisponde la consapevolezza dello zero del senso di “io”, del suo valore, della sua consistenza e questo non è compensato dal sapere che se questo sentire accade nel Cosmo un senso lo ha comunque: è irrilevante questo senso che, certamente, nella logica del Cosmo esiste, ma che non dice niente a me in quanto non soggetto privo di qualsiasi interesse a percepire di avere un senso.

Questo tema, forse un po’ complesso nella sua esposizione, ci dice una cosa chiara: quando sentiamo in termini di insieme, unitari, siamo assorbiti dal livello della unità, quello più alto, non dalla parzialità nostra pur presente in quel contesto unitario. [17.2.25]

54. Il contemplativo, la sua vita, la sua intenzione, la sua parola come il suo silenzio, la sua azione come il suo stare, sono Essere consapevole e autentico che accade. Che siano inscritte in un progetto di amore attivo o soltanto contemplazione senza azione, sono la nota gratuita e unitaria che attraversa il tempo e le coscienze e che afferma la verità dell’esistere e sull’esistere.

Sono la pelle, la carne, l’osso e il midollo della via in virtù del loro semplice accadere: non deve il contemplativo dimostrare, il suo esistere nell’Essere basta.
Quell’Esistere è una vibrazione che si spande in tutte le direzioni e viene sentita da chi la conosce confermandone e rafforzandone il procedere. [16.2.25]

53. Tutta la formazione umana potrebbe essere rivoluzionata dalla semplice comprensione dell’inesistenza del principio della vittima: se questo principio potesse essere messo in discussione nella pedagogia, nella filosofia, nelle scienze sociali, nella politica, nella religione un immane ed effimero castello di carte crollerebbe.
Ma questo implicherebbe un’azione titanica: smettere di addebitare i fatti delle nostre vite a responsabilità terze.
L’utopia di questa ipotesi ci dice quanto ancora apparteniamo alla preistoria umana. [15.2.25]

52. Per una vita mi sono speso in mille cause, oggi sono divenuto consapevole che non erano per affermazione o per egoismo, ma, fondamentalmente, per sperimentare d’essere e d’esistere. Certamente alcune di esse avevano anche una componente di pura gratuità. L’età anziana porta con sé una visione d’insieme e oggi sento che non ho necessità né di sentirmi d’essere, né di esistere e questo mi libera da una tensione verso l’altro.

Oggi l’altro sta dove è il suo posto, esattamente lì, sempre lì, posto che gli conferisce la vita sua: se accade che sono chiamato, rispondo, altrimenti taccio volentieri consapevole – oggi molto più di ieri – di essere irrilevante, alla fine. [13.2.25]

51. Osservare senza fine. L’osservazione, mentre avviene, comporta anche una inevitabile comparazione tra il sentire osservato e i dettami della vibrazione prima, tra il compreso relativo e il compreso assoluto. In quella morsa possiamo provare un dolore per il limite, ma possiamo imparare anche a gestirlo senza lasciarci sopraffare. Allora l’ascolto è contemplazione ma è anche attiva trasformazione. [4.2.25]

50. Un contemplativo scrive per essere letto? Non quando scrive di quanto trattato in queste pagine: può accadere che esse siano lette e siano anche utili nel proprio percorso personale, ma non è questa la ragione che porta a scrivere, siamo molto lontani da un intento pedagogico.

Lo scrivere per il contemplativo è esso stesso atto di contemplazione, quindi, essenzialmente, scrive chiamato dalla contemplazione per manifestare se stessa. Cosa vuol dire? Vuol dire che un dato sentire è consapevole di se stesso e lo manifesta attraverso un processo: scrivere è quel processo in cui un sentire sente se stesso.

Il contemplativo avverte in sé una tensione, o una pressione, e sa che deve scrivere: non scrive di sé, è il sentire che scrive, contempla, conduce a consapevolezza e a manifestazione. Anche quando il contemplativo scrive di sé non è lo scrivere di un soggetto ma da un sentire incarnato che si esprime nei modi possibili ai veicoli e all’ambiente vibratorio.

Il processo delle scrivere, diverso evidentemente da quello del parlare, è tutto interiore e non è un dialogo tra un soggetto e il suo sentire – come può accadere in alcune forme propedeutiche di preghiera cristiana – è un monologo: il sentire esprime se stesso attraverso la complessità della sua manifestazione e consapevolezza. [1.2.25]

49. Sentire la Vita è sentire l’attimo senza tempo. Non esiste qualcosa che possiamo chiamare vita, se non nell’ottica illusoria del divenire; la Vita di cui parlo è la radice del divenire e si può solo sentire. Non scorre, È.
Non ha bisogno dei sensi transitori, semmai ha bisogno di estraniarsi da essi, di andare oltre.

Quella Vita è Essere e bisogna precipitare in esso per sentirla: l’Essere sente l’Essere.
Sentire la realtà dall’interno dell’osservato, dello sperimentato: sentire l’osservato e lo sperimentato nella loro dimensione di Essere. L’Essere sente l’Essere, l’esperienza dell’Unità accade, il due è abbandonato. [28.1.25]

48. Ho iniziato oggi a lavorare su un tema che mi è caro e riguarda l’illuminazione istantanea e la corrispondenza in Dōgen tra pratica e illuminazione. I due temi sono chiaramente collegati e nell’elaborazione del secondo Dōgen ha proiettato la considerazione per il primo.

Per affrontare questo tema mi appoggio al lavoro di Carl Bielefeldt, un accademico storico ed esegeta della Stanford University e a un suo libro fondamentale del 1989: “Dogen’s Manual of Zen Meditation”.
Per giungere dove? A discutere due capisaldi irreali: l’illuminazione istantanea e la corrispondenza in Dōgen tra pratica e illuminazione.

L’illuminazione istantanea è un tema che ha attraversato per secoli la discussione nel Chán cinese ed era un tema ben radicato anche in Dōgen: su questo ho detto numerose cose commentando Busshō, ma qui vi tornerò per approfondire e legarlo più organicamente alla questione della pratica come illuminazione in atto. [26.1.25]

47. Continuando quanto iniziato in #46, è chiaro che compassione e karma sono inscindibili essendo il karma la forma della compassione nel divenire: non è solo la cultura binaria, duale, che pone tra essi un qualche attrito, anche l’intimo del contemplativo oscilla tra i due poli non riuscendo a sentire fino in fondo come la compassione rappresenti entrambi.

Sembra che le conseguenze delle cause mosse, a volte dure, dolorose, portino con sé un tasso di ingiustizia, di incomprensione e di non compassione: a noi sembra che il dolore sia, comunque, ingiusto. Più la compassione si insedia, più il dolore sembra troppo, un eccesso. Nel fondo del mio essere trovo questo, ma non sento nel modo corrispondente all’essere della Vita. [25.1.25]

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Catia Belacchi

So, senza ombra di dubbio, che il Karma è la forma di compassione che la Coscienza mette in atto nel divenire per aiutarci nel raggiungere comprensioni; tuttavia, di fronte a karma veramente pesanti, in una visione limitata della realtà, non si può che provare compassione umana per i fratelli che lo subiscono e spesso la loro sofferenza pare davvero eccessiva.

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