Il capitolo conclusivo dell’edizione italiana di Bendōwa curato dalla Stella del mattino, comunità buddhista-zen.
È intorno al quinto-sesto secolo dopo Cristo che le culture cinese e coreana penetrano definitivamente in Giappone. Fu in quel periodo che gli ideogrammi, i caratteri cinesi, furono trasmessi in Giappone che fino ad allora non aveva una scrittura propria. Assieme agli ideogrammi, la letteratura e un nuovo modo di pensare il mondo e la vita si sovrappongono alle intuizioni locali e, nel sesto-settimo secolo, giunge anche il buddismo.
Le scuole buddiste Tendai e Shingon, filiazioni di analoghe scuole cinesi, furono particolarmente attive in quest’opera di fecondazione religioso-culturale. Così, sebbene iniziassero già in quegli anni a diffondersi, per grandi linee, i “principi” del buddismo zen, fu invece il buddismo esoterico, cultuale e rituale, le cerimonie di commemorazione dei defunti, gli esorcismi e le forme di tipo magico, che di tali scuole sono elementi caratteristici, ad affermarsi. Tale tipo di buddismo, spesso nella sua forma più popolare, non ebbe difficoltà a diffondersi in quanto non contraddiceva, anzi favoriva, il culto degli antenati di matrice confuciana e garantiva, con le proprie liturgie, i funerali, le cerimonie di suffragio, le richieste di guarigione per i malati, di buoni raccolti, della pioggia, della riuscita dei viaggi per mare e per terra, della vittoria nelle guerre.
Nel 1200, all’epoca di San Francesco e Dante Alighieri, il buddismo esoterico e rituale è ormai ben radicato e diffuso in tutto il Giappone mentre la scuola zen oggi definita Rinzai58 e quella detta della Pura Terra rappresentavano quello che allora era definito “nuovo buddismo”, ancora quasi sconosciuto.
58 Il nome deriva dalla pronuncia giapponese del nome del patriarca cinese Linji Yixuan (?-867, in giapponese Rinzai Gigen). In Giappone il fondatore della scuola Rinzai è considerato Myōan Eisai (1141-1215).
Sono questi gli anni in cui Eihei Dōgen, giovane di una famiglia di alto rango, entrato in monastero all’età di tredici anni, è alla ricerca del significato ultimo della vita e della morte. La sua inquietudine lo conduce in Cina, mosso dalla speranza dell’incontro con un vero maestro. Fu con il suo ritorno nel 1227 che lo zen, o meglio lo zazen, che ne è la sua forma compiuta, fu sicuramente introdotto in Giappone e grazie agli uomini che hanno tramandato attraverso i secoli il vero insegnamento, ancora oggi è possibile incontrarlo e apprenderlo.
Non possiamo che chiamare fortuna, ma sarebbe forse meglio parlare di grazia, la forza che in Giappone ha consentito fossimo ospitati e istruiti nel monastero abitato dagli uomini che rappresentano l’estremità attuale del filo che ci ricollega a Dōgen e, da lui, al buddha Śākyamuni..
Il nome del monastero in cui siamo stati accolti per otto anni è Antaiji59; ad Antaiji non viene rilasciato nessun diploma: chi vi soggiorna un mese è al suo partire nelle stesse condizioni formali di chi vi trascorre la vita intera.
Per il mondo burocratico dei certificati e dei titoli onorifici tale luogo esiste solo con due numeri: nr. 449, nel registro dei monasteri della prefettura di Hyōgo, e nr. 160, nell’elenco nazionale patrimoniale dei monasteri giapponesi, il numero più basso.
59 Il monastero, che in origine sorgeva ai piedi di una collina che sovrasta Kyoto, è stato fondato alla fine del ‘800 con l’intento di creare un luogo di studio dello Shōbōgenzō. Nel 1975, in seguito all’espandersi della città e al mutamento dell’organizzazione sociale, l’abate Kōhō Watanabe ne decise il trasferimento da Kyoto a una località montana dove i monaci hanno trovato le condizioni più idonee per continuare a vivere la propria spiritualità.
60 Così era ai tempi in cui questo testo fu redatto per la prima volta, nel 1989.
Ad Antaiji, a differenza di quanto avviene comunemente nei monasteri, non si celebrano né funerali né altre cerimonie per garantire una fonte di guadagno per i monaci i quali, invece, vivono esclusivamente del proprio lavoro.
Lo zazen vi è praticato intensamente, accanto al lavoro della terra e, specie nei mesi invernali, allo studio. Il rapporto con il maestro è continuo: insieme si fa zazen, si lavora nei campi e nei boschi, e quando è il momento si beve una bottiglia di sakè.
Due volte all’anno si fa relazione di fronte alla comunità di quanto appreso nelle ore di studio. In questa occasione l’abate e i confratelli con le loro domande e obiezioni valutano in profondità le esperienze intellettuali di ciascuno.
Fin dai primi mesi ci rendemmo conto che la vita in quel luogo era possibile per chiunque, qualsiasi fosse il suo Paese d’origine. Oggi sappiamo che l’universalità della vita vissuta ad Antaiji era riconducibile a ciò che rappresentava la base di tutta l’esistenza in quel luogo: lo zazen. Ovviamente, la vita quotidiana era determinata dall’essere in Giappone: il riso coltivato e mangiato ogni giorno, le bacchette, la lingua. Tutto, forse, ma non lo zazen: non ci si siede in zazen con le gambe incrociate perché quello è il modo giapponese di sedersi.
Il modo di fare zazen non ha relazione con le epoche storiche o la cultura di un popolo in particolare. Negli anni trascorsi in Giappone non abbiamo imparato qualcosa di caratteristico di quel Paese, ma qualcosa che riguarda direttamente noi stessi in quanto uomini e che, crediamo, riguarda ogni uomo.
Per lungo tempo abbiamo immaginato di vivere la realtà comune a tutti i monasteri zen del Giappone. Solo quando, sia per ottenere una legittimazione da parte della chiesa buddista ufficiale, sia per vedere con i nostri occhi e vivere in prima persona la realtà comune del buddismo giapponese, siamo stati inviati per due anni in seminari di clausura, senmon sōdō in giapponese, e per brevi periodi in alcuni templi-parrocchia, abbiamo potuto renderci conto della realtà in cui Antaiji rappresenta piuttosto un’eccezione che la norma.
La profondità e la forza dell’esperienza religiosa del maestro Dōgen determinarono in modo decisivo la pratica dello zazen così come la conobbero le due o tre generazioni che gli succedettero. Tuttavia, più il ricordo diretto della sua esperienza si è allontanato nel tempo, più è andato riducendosi il numero di coloro che hanno realmente fondato la propria vita nella pratica dello zazen.
Uno sguardo alla situazione attuale della chiesa buddista zen di scuola Sōtō aiuterà a comprendere la parabola degenerativa che essa ha compiuto. Anche se l’esempio che segue ha un significato paradigmatico estensibile alla maggior parte delle chiese buddiste giapponesi.
A partire dalla metà del secolo scorso, termine dell’epoca Edo61, tutti i preti buddisti sono autorizzati a sposarsi. Da allora accade che il tempio, entità simile alla nostra parrocchia, venga considerato come una proprietà ereditaria. Il meccanismo è il seguente: uno, o più di uno, dei figli del “parroco” diventa discepolo del padre fino a essere ordinato prete-monaco. Per diventare “parroco”- maestro è necessario però il riconoscimento da parte della chiesa ufficiale.
61 1603-1868, detta anche Tokugawa dal nome della famiglia che detenne il potere politico e militare in quel periodo storico.
L’iter non è affatto complicato perché la maggioranza del clero è desiderosa di vedere i propri figli arrivare senza intralci alla meta. Per un laureato sarà quindi sufficiente trascorrere un anno in un seminario di clausura, due per chi si trova provvisto di un diploma di scuola superiore e cinque per chi ha titoli di studio inferiore.
La conduzione del tempio diventa quindi un “mestiere” allettante, una buona alternativa alla feroce legge della competitività che domina il mercato del lavoro. Il tempio-parrocchia, con le prestazioni liturgiche che è in grado di offrire, costituisce una fonte spesso cospicua di reddito. Per esempio in uno dei seminari di clausura in cui abbiamo soggiornato veniva insegnato il cosiddetto “esorcismo dell’automobile”: quando un fedele conduceva al tempio la propria nuova, dopo averla posteggiata di fronte alla sala dei riti, veniva circondata dai monaci che, con vesti svolazzanti e pantofole, le giravano diverse volte intorno, suonando tamburi e cimbali, intonando litanie in sanscrito, cinese e giapponese e lanciando petali di fiori di carta.
In questi luoghi la pratica dello zazen è qualcosa di marginale o comunque corollario formale di quella che è piuttosto una vera e propria scuola di formazione professionale, attenta a trasmettere i segreti del mestiere, le tecniche dell’”arte” che si vuole insegnare.
I riflessi di questa situazione son più che evidenti in Occidente dove sedicenti maestri zen vengono seguiti e imitati nel comportamento esteriore da allievi convinti così di “imparare lo zen”. È come se altrettanto sedicenti maestri di spiritualità cristiana insegnassero all’estero, in India o Giappone, a celebrare processioni con reliquie di improbabili santi, a duplicare il culto del sangue di San Gennaro, pretendendo con questo di trasmettere il vero messaggio di Cristo.
È sulla base di tali considerazioni che, su indicazione dell’abate Watanabe, abbiamo iniziato a tradurre un’opera di un buddista zen giapponese. L’insegnamento di Dōgen, nella sua peculiarità di messaggio universale, precede gli adattamenti imposti dalle varie culture locali nel corso dei secoli, ed è l’insegnamento completo trasmesso dal buddha Śākyamuni. Questo “vero insegnamento” o “zen” che dir si voglia, non è buddismo giapponese, né cinese, né indiano: benché sia corretto definirlo buddismo per far sì che abbia un nome che descriva la forma in cui è espresso, tale definizione non gli fa pienamente giustizia perché si tratta di verità sempre esistita, quindi precedente alla nascita del buddismo stesso.
Auspicando che questo insegnamento possa essere accolto nella realtà italiana, con altrettanto vigore ci auguriamo che mantenga la sua purezza, affinché possa essere trasmesso al futuro sempre come insegnamento universale.
L’incontro con lo zen ad Antaiji è stato possibile perché l’urgenza della ricerca e la vocazione che ci ha condotto in Giappone andavano oltre la curiosità folcloristica.
Abbiamo condiviso le profonde inquietudini che hanno segnato il percorso di quasi tutta la nostra generazione. Il rifiuto di una religione di comodo e passivamente accettata, l’impegno nell’azione politico-sociale, la ricerca interiore intesa come ampliamento della coscienza o come soddisfazione del proprio narcisismo spirituale.
Quella degli anni Sessanta non fu tanto una rivolta degli oppressi o degli esclusi dalla società quanto, almeno inizialmente, una generica protesta contro l’ingiustizia, l’ipocrisia, l’imposizione di valori con i quali non era più possibile identificarsi.
Mentre immaginavamo di poter superare il disagio concentrando i nostri sforzi nell’impegno sociale, commettemmo un errore molto frequente: a lungo siamo stati convinti che la libertà consistesse nell’ampliamento senza limiti delle possibilità di azione ignorando completamente la centralità della riflessione intorno alle modalità di tale agire. La libertà finì col coincidere con un termine di possesso anziché con il presupposto dell’essere. Non comprendemmo che la forma più elevata di libertà non è essere liberi di fare qualsiasi cosa, ma essere liberi nel fare ogni cosa che si fa.
Avevamo trascurato del tutto la domanda intorno alla nostra essenza, rinunciando così al tentativo di capire che cosa siamo in realtà, una volta spogliati da ogni aggettivo e attributo.
Quel disagio spirituale che non aveva trovato rimedio nella proposta religiosa ed esistenziale del cristianesimo tradizionalmente proposto si era diretto prima verso la rivolta sociale e politica, poi a una ricerca interiore altrettanto ribellistica e confusa. In entrambi i casi si era trattato di un’opera di demolizione, che significava smarrimento e perdita d’identità, pericolosa, ma ricca di opportunità. In quella sorta di vuoto ci si è presentato lo zazen.
Quando ad Antaiji ci chiesero il motivo che ci aveva portato al rifiuto della religione cattolica non fu facile trovare una risposta. Un generico malessere, la delusione provata da ragazzi di fronte alla mancanza di autorevolezza di chi si offriva come il portatore del messaggio evangelico, le contraddizioni riscontrate nella gerarchia, la prosopopea di chi all’interno della chiesa cattolica proclama il cattolicesimo quale unica vera religione, furono tutti elementi che, insieme, determinarono sfiducia e disinteresse per la religione che, in modo quantitativamente consistente ma qualitativamente scarso, avevamo incominciato a conoscere fin da bambini.
La proposta di vita che incontrammo ad Antaiji si presentava come qualcosa di assolutamente inedito. Una metodologia d’indagine che richiedeva un’applicazione armoniosa e globale del corpo e dell’intelletto escludendo così ogni categoria discriminante di un piano sull’altro, ed evitando, in ambito temporale, ogni privilegio tra un momento e l’altro dell’esistenza.
Ma, infine, è possibile tentare una descrizione di che cosa è zazen con gli strumenti del nostro linguaggio? Forse, attraverso avvicinamenti progressivi e definizioni spesso al negativo.
Zazen è affidarsi completamente, senza riserve, alla forza che ci fa vivere e morire, che ci ha portati a essere e che fa battere il nostro cuore, che fa sorgere e tramontare i nostri pensieri, che è dentro e fuori la portata del nostro controllo: affidarsi con la presenza di tutto se stesso, con la posizione del corpo e dello spirito.
Per il corpo zazen è assumere la posizione tramandata, stabile e non contratta, rilasciata e non abbandonata. Il corpo è il tempio: tornare con l’attenzione alla posizione del corpo è tornare alla realtà, ricostruire l’integrità di corpo e spirito. Per lo spirito zazen è non discriminare, non scegliere, lasciare che la realtà incontaminata si manifesti tramite l’essere seduti, in quel momento.
Per un orientale è immediatamente intuibile il carattere religioso dello zazen, non altrettanto per un occidentale. Come per un occidentale educato cristianamente il senso ultimo della preghiera è quello dell’essere in rapporto con Dio in risposta al Suo amore che nulla pretende in cambio, così per un orientale educato secondo il buddismo, il senso autentico dello zazen sta nell’essere in rapporto con la vita universale e in tal modo rispondere, senza nulla pretendere in cambio, alla propria natura essenziale.
È tuttavia difficile, per noi occidentali, attuare una pratica religiosa venuta dall’Oriente. Forse anche per il modo in cui, sovente, ci è presentata dagli orientali stessi quando, per renderla più accattivante, mettono l’accento su aspetti come l’illuminazione, il rafforzamento della propria personalità, il superamento della condizione umana, il raggiungimento dell’atarassia.
Attendersi qualsiasi beneficio dalla pratica dello zazen, per quanto umanamente legittimo, è una contraddizione in termini perché lo zazen ha in sé la propria ragione di essere e il suo aspetto fondamentale è quello religioso.
Nel fare zazen non bisogna fare alcuno sforzo per cercare di ricordare qualche nozione o informazione particolare, né per raggiungere o riprodurre un particolare stato mentale.
In altre parole, quando stiamo facendo zazen non abbiamo bisogno di metterci a pensare a nulla, perché non stiamo facendo proprio nulla. Solo esistere.
Abbiamo già detto come la dimensione della gratuità sia il presupposto ineludibile di ogni fondata ricerca della dimensione religiosa. Non “lontano da noi”, in un luogo idealizzato di benessere, ma nella nostra più intima essenza dove, nelle ansie del quotidiano, siamo capaci di ricordare: «Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?…» aderendo così realmente a «…sia fatta la Tua volontà» e tornando a noi stessi.
Questo ritorno è un momento rivoluzionario, un azzerare che non porta al nulla ma a ciò che siamo veramente prima di qualificarci in qualche modo.
Il cammello può passare per la cruna dell’ago oppure no. Per passare però deve spogliarsi fino a non essere più né buddista né cristiano, né zen né cattolico.
Fonte: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino.
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