Manuale di meditazione zen, di Carl Bielefeldt, recensione1 (zen1)

Recensione del libro: “Dogen’s Manual of Zen Meditation”, by Carl Bielefeldt
Autore: Kim, Hee-jin
Volume v.23 n.1 New Series
Date 1990, Pages 141 – 145
Publisher Eastern Buddhist Society, Otani University

[Sommario IA] Il libro di Bielefeldt offre l’analisi più approfondita dei manuali di meditazione di Dōgen, sfidando le interpretazioni tradizionaliste.
Bielefeldt ricostruisce le origini storiche dello Zen di Dōgen, contestando l’ideologia settaria Soto.
Il libro include traduzioni accurate dei manuali di meditazione di Dōgen, tra cui il Fukan zazen gi e il Tso-ch’an i di Ch’ang-lu Tsung-tse.
Bielefeldt sfida l’idea che Dōgen avesse un metodo di meditazione unico, mettendo in luce l’influenza di Tsung-tse e il contesto storico-intellettuale più ampio.
L’analisi di Bielefeldt considera la lacuna di manuali di meditazione nel Ch’an classico, attribuendola alla dottrina dell’illuminazione improvvisa e alla conseguente ambivalenza verso la pratica meditativa.
Bielefeldt confronta il Tso-ch’an i con il Fukan zazen gi, evidenziando sia le somiglianze che le differenze, in particolare l’interpretazione di Dōgen della meditazione.
Il confronto tra le diverse versioni del Fukan zazen gi mostra l’evoluzione del pensiero di Dōgen, con una radicalizzazione della tradizione Ch’an che porta alla concezione della meditazione come pratica illuminata. [/S]

MANUALE DI MEDITAZIONE ZEN, di Carl Bielefeldt. Berkeley e Los Angeles: University of California Press, 1989. Pp. 259. ISBN 0-520-06056-3. 

Quest’opera di Bielefeldt sui manuali di meditazione di Dogen – il Fukan zazen gi (“Promozione universale dei principi della meditazione seduta”) e altri tre scritti – è di gran lunga l’analisi più approfondita e rigorosa dell’argomento disponibile finora negli studi su Dogen. Bielefeldt va oltre tutti gli altri ricercatori nel ricostruire le origini storiche dello Zen di Dogen; la sua revisione è in contrapposizione all’ideologia settaria Soto.

[Pubblichiamo alcuni materiali relativi alla zen, alle sue origini e al suo sviluppo nella convinzione che molto si possa indagare non mossi da una intenzionalità speculativa e intellettuale, ma dall’esigenza di chiarire i cardini fondamentali del pensiero di Dōgen – e dello zen classico – quali, tra gli altri, l’equiparazione tra pratica e illuminazione o il senso stesso di pratica e tanto più quello di illuminazione. Cardini non secondari per la vita e l’esperienza di un contemplativo che a ogni istante del suo esistere si confronta con questi temi e dunque si interroga e propone la sua interrogazione.
Dopo la pubblicazione di alcuni materiali che preparino il terreno e illuminino su una complessità mai esaurita, affronterò questi temi:
1. La realtà che definiamo Essere, o natura autentica.
2. Cosa si intende per illuminazione nel Sentiero e l’irrealtà dell’illuminazione istantanea.
3. Cosa si intende per pratica e l’azzardato e relativo parallelo tra pratica e illuminazione.
4. La demitizzazione della nozione di pratica e di illuminazione e la reale tensione tra divenire ed Essere.
5. Formazione e contemplazione in una via spirituale nel XXI secolo. Qui la raccolta dei post]

Il libro consiste nella principale esposizione e nelle traduzioni dei manuali di meditazione, così come nella breve dichiarazione di Dōgen, originariamente senza titolo, ma ora conosciuta come Fukan zazen gi senjutsu yurai (“Sull’origine dei ‘Principi della meditazione seduta’”), e il Tso-ch’an i (scritto attorno al 1103, ndr), un manuale di meditazione della dinastia Sung del nord, di Ch’ang-lu Tsung-tse. Le traduzioni di Bielefeldt di questi materiali sono ben documentate, competenti e accurate. In ciò che segue, mi concentrerò sulla principale esposizione dell’opera.

Gli studiosi tradizionali – soprattutto quelli della setta Soto – hanno generalmente creduto che:

  1. immediatamente dopo il suo ritorno dalla Cina nel 1227, Dōgen compose un manuale di meditazione (il testo Karoku ora non esistente) – di solito considerato l’urtext (la radice, l’originale, ndr) del Fukan zazen gi – come dichiarazione di indipendenza del suo Zen dalle vecchie scuole del buddismo giapponese;
  2. successivamente, nel 1233, fece una copia corretta del manuale, cioè il testo Tenpuku (o autografo), il più antico Fukan zazen gi esistente; e infine,
  3. circa nel 1243, revisionò il testo Tenpuku, producendo così la vulgata (o Kōroku) per riflettere la sua visione matura dello Zen che si era sviluppata nei suoi fascicoli dello Shōbōgenzō scritti negli anni che separano queste due recensioni.

In considerazione del fatto che Dōgen menziona la sua intenzione di comporre un manuale di meditazione sulla base di, e migliorando, il Tso-ch’an i di Tsung-tse, gli studiosi di Dōgen hanno confrontato la versione Tenpuku (1233, ndr) con il Tso-ch’an i da un lato, e con la versione vulgata (1243, ndr), insieme ad altri manuali come lo Shōbōgenzō zazen gi (“Principi della meditazione seduta”, 1243), lo Shōbōgenzō zazen shin (“Indicazioni per lo zazen”, 1242), e la sezione Bendo ho “zazen ho” (1245), dall’altro. Di conseguenza, gli studiosi tradizionali hanno in gran parte mantenuto l’unicità del metodo di meditazione e degli insegnamenti di Dōgen (cioè, shikan taza “solo sedere”) come impartiti direttamente dal suo mentore cinese T’ien-t’ung Ju-ching (1163-1228).

Pur accettando la potenziale fruttuosità del trattamento storico e testuale dei manuali di meditazione di Dōgen, Bielefeldt sfida radicalmente, tra le altre cose, la validità delle assunzioni contestuali complessive della precedente visione tradizionalista.

La visione tradizionalista interpreta sia la continuità che la discontinuità con Tsung-tse (1103) rigorosamente all’interno del quadro settario della trasmissione del Dharma da Ju-ching (il maestro di Dōgen, ndr) a Dōgen, isolando così la religione di Dōgen dai suoi contesti storici e intellettuali più ampi. Inoltre, tale orientamento tradizionalista, come osserva Bielefeldt, si basa sull’ultimo decennio circa della vita di Dōgen, quando la sua forte coscienza settaria in relazione al suo mentore cinese divenne pronunciata, e deriva dall’apologetica Soto promossa nel diciottesimo secolo da studiosi settari, in particolare Menzan Zuihō (1683-1769).

Al contrario, Bielefeldt concentra il suo studio su quegli anni di circa un decennio e mezzo dopo il ritorno di Dōgen dalla Cina, durante i quali i suddetti manuali di meditazione sono stati scritti, cercando, così, di collocare questi scritti nel contesto della tradizione improvvisa del Ch’an*, da cui ha avuto origine la tradizione della meditazione sia in Cina che in Giappone. 

* “to place these writings in the context of the sudden tradition of Ch’an”

Di conseguenza, Bielefeldt considera il Tso-ch’an i di Tsung-tse nel contesto della storia intellettuale del Buddhismo, in particolare del Ch’an e del T’ien-t’ai in Cina, e dei testi di meditazione nei periodi Heian e Kamakura in Giappone. Prima confronta l’opera di Tsung-tse con il T’ien-t’ai hsiao chih-kuan, un influente manuale di meditazione del sesto secolo, di T’ien-t’ai Chih-i (538-597), affermando che il primo dovrebbe essere correttamente inteso come un nuovo lavoro progettato per popolarizzare la meditazione al fine di colmare il vuoto lasciato dall’ortodossia del Ch’an nella Cina Sung.

Per chiarire ulteriormente questo punto, Bielefeldt delinea la storia del Ch’an, notando che, nonostante la promettente tradizione di meditazione del primo Ch’an avviata dalla scuola del settimo secolo Tung shan (“Montagna Orientale”), il Ch’an classico non riuscì a produrre alcun manuale di meditazione.

Secondo Bielefeldt, questa peculiare lacuna era dovuta alla difesa della →dottrina dell’illuminazione improvvisa da parte della scuola meridionale del Ch’an. Ironia della sorte, questa pratica portò a una posizione anti-meditativa autoimposta nonostante il Ch’an fosse la scuola di meditazione, e a sua volta rese problematica e sospetta la discussione su tutti i metodi di meditazione.

Per quanto riguarda quei secoli classici in cui i buddisti del Ch’an non produssero alcun manuale di meditazione, eppure praticarono comunque la meditazione – l’età d’oro del Ch’an che fu enormemente creativa e vitale rispetto alla tradizione della meditazione, il trattamento di Bielefeldt del periodo, specialmente riguardo al posto della meditazione nella vita del Ch’an, è praticamente nullo; egli relegò semplicemente questo peculiare fenomeno dell’assenza di scritti di meditazione a un singolo fattore ideologico, cioè a ciò che egli chiama la soteriologia “protestante” – la saggezza trascendentale da sola a spese delle opere (meditazione) – dell’ortodossia del Ch’an.

L’effetto totale di tale analisi è vagamente intrigante. In ogni caso, come sostiene Bielefeldt, dato un tale clima ideologico, il Ch’an alla fine si trasformò in un Ch’an elitario e formalizzato attraverso l’adozione del metodo di indagine kung-an (k’an-hua) (kōan, ndr) nella dinastia Sung. Le promesse e le problematiche degli sforzi di Tsung-tse possono essere apprezzate alla luce di tali forze ideologiche all’interno del Ch’an Sung.

L’ambivalenza perenne del Ch’an nei confronti della meditazione, dovuta ai suoi intrinseci pericoli di assorbimento transitorio e quietismo mortale, era vera anche per il Zen in Giappone, dove, come osserva Bielefeldt, i contemporanei di Dōgen erano abbastanza familiari con i principali testi di meditazione cinesi, inclusi quelli di Ch’ang-lu Tsung-tse; alcuni scrissero persino le proprie guide popolari alla meditazione. In considerazione del fatto che Dōgen scrisse il suo Fukan zazen gi in un tale contesto storico e intellettuale, la cosiddetta unicità della meditazione di Dōgen, insiste Bielefeldt, deve essere drasticamente rivalutata. 

Nel confrontare il Tso-ch’an i di Tsung-tse e il Tenpuku Fukan zazen di Dōgen, Bielefeldt sostiene che la sezione centrale di quest’ultimo, che tratta di consigli pratici sulla pratica della meditazione, segue il primo rispetto al contenuto, sebbene sia notevolmente semplificata. Tuttavia, le sezioni introduttive e conclusive del Fukan zazen gi portano chiaramente il marchio di Dōgen con le sue caratteristiche filosofiche e letterarie, in particolare la sua propensione a teorizzare sulla meditazione.
L’interpretazione di Dōgen della meditazione, quindi, differisce, come la vede Bielefeldt, da quella di Tsung-tse, fondando teoricamente la meditazione negli insegnamenti di saggezza della tradizione →Ch’an improvvisa, così come identificandola storicamente con la linea patriarcale Ch’an: mentre Tsung-tse reagiva alla tradizione di saggezza Ch’an, Dōgen la abbracciava

Un confronto tra le versioni Tenpuku (1233) e la vulgata (1243) del Fukan zazen gi ci fornisce ulteriori evoluzioni nella visione di Dōgen sulla meditazione – una radicalizzazione della tradizione di saggezza del Ch’an: ora purgata delle più lievi preoccupazioni terapeutiche e utilitaristiche, così come di quelle della concentrazione transitoria, →la meditazione diventa pratica illuminata (shōjō no shu). Continua.

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Nadia

Grazie.

Catia Belacchi

Grazie per averci fatto conoscere questo autore, profondo conoscitore dello zen.

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