La grande madre natura che ci sostiene e ci fa vivere, non è un’entità astratta, ma è edificata dal concorso di tutte le cose. Nella creazione che avviene di istante in istante, l’opera di creazione e la cosa creata non sono separabili: non c’è l’una senza l’altra e viceversa.
Neppure una cosa delle cose che sono è eliminabile senza che ciò modifichi il tutto e quindi ogni singola cosa che è. Non è questione di stabilire se l’universo è chiuso o aperto: chiuso o aperto che sia, tutto, nulla escluso, concorre a edificare l’universo così come è.
La realtà tutta intera di madre natura è la realtà sconfinata della natura autentica dell’essere: così si verifica, quando ogni cosa corrisponde alla legge intrinseca che la muove e che edifica la realtà come concorso di ogni cosa alla composizione del tutto.
Così, biblicamente parlando, Dio vede che la creatura è buona come l’opera del creatore, quando corrisponde alla sua legge intima che è il movente stesso della creazione. Non c’è una forma della natura autentica diversa da questa. Questa intima legge, questa natura intrinseca, non è qualcosa che sta dentro o fuori alle cose, non è sopra-naturale né nascosta qui o là: è le cose stesse, piccole o grandi che siano, ordinarie o straordinarie che ci appaiano. Tutto concorre, concorre tutto: a volte sembra così semplice, ma non per questo dobbiamo illuderci di capire tutto: a volte sembra così difficile, ma non per questo dobbiamo avvilirci, pensando di ignorare tutto.
[→uma] “Non è sopra-naturale né nascosta qui o là: è le cose stesse”: l’espressione è piuttosto ambigua e bisognerebbe definire cosa sono le cose stesse, cosa è ciò che appare, che viene percepito? È solo ciò che i sensi del corpo fisico rilevano? Ma se è il frutto di leggi non è solo quello (e la legge che natura ha?), dunque ciò che è rilevato da un senso è l’aspetto più “esterno” di una natura complessa, natura che non è solo fisica né solo sopra-fisica, è un insieme unitario. Insieme che vive una vita oggettiva a prescindere da chi lo percepisce? Direi di no visto che Dogen tira in campo l’interdipendenza, ma di questo tratteremo tra poco.
La natura autentica “è le cose stesse“: mi si perdonerà ma questo non significa niente, né chiarifica.
→La natura autentica è lo svelarsi, alla percezione complessa di un aggregato di sentire, della natura composita del vivente e dell’essente.
Un sentire composito, un individuo:
– coglie la forma di un sentire che in una forma è rappresentato;
– coglie la vibrazione astrale e mentale di quel sentire rappresentato;
– coglie l’unità vibrazionale che va dall’intenzione all’azione di quel sentire rappresentato e dunque, cogliendo l’unità sostanziale, sente la natura autentica essente in quell’istante. [/uma]
L’interdipendente concorrere di tutto non edifica solo la vasta realtà esteriore, costituisce anche la trama della realtà interiore. Gli stati interiori di ciascuno dipendono e sono strutturati dal concorrere di tutte le cose. I nostri pensieri non sono indipendenti dalle condizioni esteriori: la nostra pace interiore non è dipendente da una legge diversa e autonoma, rispetto a quella che muove i cieli. Non si tratta quindi di conquistare uno stato mentale o spirituale imperturbabile, o di acquisire poteri che mi svincolino dalle comuni leggi: l’unico stato imperturbabile è la condizione della natura autentica di ogni cosa, che è quella cosa quando è se stessa.
[→uma] “L’interdipendente concorrere di tutto”: bisognerebbe scendere in profondità ma non è la sede. Qual è la relazione reale tra quello che definisco me e quello che definisco te (qualsiasi cosa sia questo te)? La realtà oltre me esiste oggettivamente? Io esisto oggettivamente?
Sono un aggregato di sentire e anche tu lo sei? La forma/manifestazione che assumiamo dipende dalla espressione e percezione esistenziale necessaria a me e a te?
Ti percepisco non per quello che sei, cosa impossibile, ma per quello che è necessario al mio iter esistenziale di comprensione, e così vale per te in relazione a me.
Quindi, se la percezione di te è soggettiva, chi sei veramente e cosa è la natura autentica tua che si manifesta in questo momento?
Se in questo momento presente numerose forze si intersecano – l’interdipendenza – ma vengono “piegate” alla mia necessità esistenziale, cosa diventa la questione della natura autentica?
Ecco che è natura autentica di questo preciso istante un complesso di fattori:
– la tua manifestazione sui diversi piani è – così come mi appare, come è percepita da tutti i sensi di tutti i corpi – natura autentica. Contemplata come accadente è Ciò-che-È, indipendentemente dal fatto che la scena sia modulata da una mia necessità esistenziale.
– Il mio sentire così come lo percepisco in questo preciso istante di relazione con te, in questo accadere, con il dispiegarsi della mia necessità esistenziale, è natura autentica;
– la situazione tra noi due accadente in questo attimo eterno e contemplata unitariamente aldilà di me e di te, è natura autentica. [/uma]
I cosiddetti poteri soprannaturali sono aleatori, perché non c’è nulla sopra la natura che non sia a sua volta natura. Si manifestino oppure no quelle che all’occhio comune sono abilità straordinarie, qualunque cosa non è che manifestazione della natura autentica che avviene grazie al contributo di tutto. Non c’è mai nulla di cui vantarsi: non c’è uno stato particolare da raggiungere. Se si parla di poteri, è per ricondurre il discorso e l’attenzione sul vivere la realtà presente secondo le norme che la sapienza ispira. Per far questo non occorre neppure rimarcare che la realtà della vita di tutti i giorni è in sé stessa il cuore di Budda: anzi, facendolo si rischia di dare una patina di specialità innaturale a ciò che è naturale. Forse che esclamare: che bello!, rende più bello il cielo stellato? Quando si respira non c’è alcun bisogno di dire sto respirando. Credere che il cammino religioso ci renda speciali, vuol dire ostruire quel cammino che è invece quello dell’autenticità senza compiacimenti.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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