Manifestazioni che sono comuni nel mondo, come la preoccupazione per una persona cara o per i propri personali “errori” commessi nel tempo, nel contemplativo assumono un’altra valenza, sono il segno di uno stato e indicano una strada.
1- La valenza: il contemplativo sa che non deve interferire con il fluire della vita sovrapponendo la propria preoccupazione o il proprio giudizio. Lo sa perché lo ha compreso da tempo, ma forse ancora dei tasselli di comprensione mancano, o forse la natura umana chiama alle sue regole e quel richiamo sovrasta il compreso.
La storia della contemplazione e della mistica trabocca di conflitti e combattimenti interiori, segno che la sfida è comune e non eludibile: come si manifesta? Con la sfera del pensiero e del sentimento che sembra emanciparsi e invadere enfatizzando disposizioni caratteriali chiaramente già esistenti: aspetti del transitorio come ansie o giudizi assumono un ritmo incalzante e anche ossessivo.
Nel piano della consapevolezza convivono il compreso dal contemplativo – che è stabile e permanente – e il fluttuare di questa emancipazione di forze transitorie.
Qual è la valenza di questa situazione esistenziale? Portare in risalto un non risolto, una sfumatura importante di non compreso o di non attuato, perché può essere compreso ma non ancora pienamente attuato e questo iato parla di una non comprensione piena, di una sfumatura da completare.
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2. Il segno di uno stato: per rimanere nel confine degli esempi citati, ansia e giudizio (per sé o per l’altro, poco cambia) denunciano un deficit di resa: chi non si arrende, e perché?
La risposta canonica dice che è l’identità che non si arrende perché vuole tutelare il suo diritto a esistere. Nel Sentiero diremmo che l’immagine di sé tende ad auto alimentarsi e a stabilizzarsi, pertanto la resa al presente è sempre soggetta a tensione.
Qui vorrei però provare un altro approccio: la resa equivale allo scomparire. Ogni atto di resa è un tassello che viene meno in quel complesso di esistere nella separazione che consideriamo la nostra ordinarietà. Ci percepiamo, nella auto consapevolezza, come un complesso che esiste su più piani ma entro confini e limiti più o meno definiti: lo scomparire è la perdita di quei confini e limiti e dunque di quella auto consapevolezza. Senza confini non c’è auto consapevolezza certa – e auto attribuibile – del conosciuto e dunque il senso di esistere e di essere viene minacciato.
La nozione di esistere e di essere viene radicalmente interpellata nel momento in cui la resa all’accadere non ci permette più di qualificarci come esistenti ed essenti: un’ansia e un giudizio innanzitutto ci qualificano come enti esistenti ed essenti. Se non esercitiamo queste facoltà di esistere ed essere, arrendendoci all’imponderabile del momento, nell’impianto consolidato dell’esistere ed essere si crea una pericolosa insicurezza, una frattura, una non continuità.
Sarà necessaria una consapevolezza più profonda del senso di esistere e di essere ma passa per le fasi che descriverò in seguito.
È da questa frattura della continuità di essere e di esistere che si emancipano le forze transitorie, forze in libertà perché il paradigma che le governa è in crisi. Allora il pensiero e l’astrale fluttuano intensamente, la preoccupazione per l’altro o per sé si fa acuta a segnalare che un equilibrio non c’è più – quello in cui il paradigma diceva che esistere ed essere erano garantiti, entro certi limiti e a date condizioni – ma non c’è ancora nemmeno, non in una sua fase evidentemente matura e stabile, il nuovo paradigma – la consapevolezza più profonda – che affonda la sua essenza sullo scomparire.
Siamo a cavallo tra incarnazione e suo superamento e quindi una istintualità primaria si fa ben presente: da una parte le dinamiche del sistema che costituiscono l’auto consapevolezza, dall’altro un sentire vasto quanto indefinito in tanti suoi tratti: la resa è resa a una gratuità d’esistere, gratuità che non è caso, fortuna o frutto di una qualche assurda predilezione, ma solo esistere secondo le leggi dell’Assoluto Essere, leggi che non sai come operano in te o nell’altro da te perché in buona parte le ignori.
E le ignori proprio perché devi (è necessario, è maturo) compiere quel gesto di resa, quel passare da un mondo a un altro: dal controllo al semplice abbandono.
Devi entrare nelle logiche della gratuità: gratuità che riguarda il tuo cercare sempre una causa, una ragione, una consequenzialità, un possibile effetto.
Devi passare dalla consapevolezza del karma, che opera ovunque e sempre finché si è incarnati, all’abbandono della pretesa di comprenderlo: non potrai mai sapere la sfida sottile karmica che attraversa te o chi ami, entrare nella gratuità significa dire: non lo so, non lo posso sapere e allora mi arrendo, mi abbandono, mi affido. Dirlo è una cosa, attuarlo fino in fondo, un’altra.
3- La strada: mi affido. Il nuovo paradigma che sostituisce il vecchio basato sul controllo, è fondato sull’affidarsi,
- ma l’affidarsi porta con sé la maturità della destrutturazione di sé altrimenti non è reale, è solo pantomima,
- e porta anche la consapevolezza più profonda di una radice d’essere e d’esistere che diviene sempre più reale, concreta, tangibile, lucidamente sentita.
Mi affido e accetto di vivere senza terra sotto i piedi, senza le mille spiegazioni, ipotesi, speranze, confini da abbattere, slanci, generosità. Mi affido a ogni attimo e conosco la gratuità che lavora in me, gratuità che mi scava come un tarlo e che ogni volta che sorge un ansia mi dice: vedi? Stai insinuandoti come protagonista.
L’affidarsi è un po’ l’esperienza dell’uomo in mare: se non si agita, galleggia. Questo perché il processo che sta vivendo è assolutamente naturale ma la perdita di ogni moto espansivo, di ogni presunto diritto è spiazzante: perché non dovrei valutare i miei errori? Perché non dovrei preoccuparmi per chi amo?
In modi sottilissimi si insinua il principio della separazione, dell’io/tu, del giusto e dello sbagliato, del provvedere perché si ama e ci pone di fronte al vivere nel non-fare, al vivere nella resa radicale che è anche abbandono di sé, è un tutt’uno con l’abbandono di sé, con lo scomparire.
Infine voglio tornare sulla nozione di gratuità distinguendola dal senso comune e anche da quanto afferma la Via della Conoscenza: qui è intesa come intima dinamica che porta alla perdita di ogni riferimento, come fattore destrutturante l’apparato stesso dell’esistere ed essere a qualunque livello sia inteso. Un grande tarlo che rode ogni postulato, ogni paradigma, ogni superficie di appoggio affinché vi sia completo vuoto di fronte al fatto che accade.
Gratuità che non viene attribuita a un agente esterno – magari la Vita – che opera fuori dal nostro controllo, ma fattore interno al nostro stesso esistere che lo conduce a dissoluzione.
La gratuità come essenza dell’Assoluto Essere dal quale genera ogni sentire che contiene in sé, questo sentire, anche il principio della sua dissoluzione.
Credo di intuire che, nella resa, il gesto altruistico, lo slancio e la cura dell’altro possano manifestarsi come espressione autentica del sentire, o svelarsi come nostri bisogni che non siamo tenuti a assecondare.
“Siamo a cavallo tra incarnazione e suo superamento”
e qui descrivi chiaramente il processo di resistenza a lasciare andare l”ultimo appiglio appellandosi al bene dell’altro, l’ultima resistenza allo scomparire.
Post rivelatore dell’abisdo di sentire che lo ha generato.
Per quanto riguarda il punto uno, credo di comprendere quelle ansie e quei pensieri che arrivano quando si destruttura il soggetto e si iniziano a perdere i confini.
Per questo la resa è difficoltosa se non difficilissima.
Mi chiedo, più o meno : perché dovrei “andare oltre”? Anche se non c’è un andare semmai un scendere. Non è sufficiente il compreso che c’è? (sempre che ci sia).
Hai ragione : c’è la paura di perdere il sentire di esistere e di essere.
L’affidarsi , nonostante i mantra, resta ancora un concetto, magari ripetuto ma non impastato nelle viscere .
Presunzione e protagonismo.
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