Una pratica basata unicamente sulla verità della buddità (zen4)

Capitolo conclusivo (parte seconda) del MANUALE DI MEDITAZIONE ZEN, di Carl Bielefeldt. Berkeley e Los Angeles: University of California Press, 1989. Pp. 259.

[Sommario IA] Dogen, come il movimento di riforma Sung del Ch’an, si preoccupa di evitare l’inerzia nel Dharma e di rendere l’insegnamento improvviso (pratica – illuminazione, ndr) un veicolo religioso efficace.
Diversamente da Ta-hui che giustifica la pratica su basi psicologiche, Dogen preferisce la “via maestra della ragione”, appellandosi alla pratica Ch’an incontaminata.
Dogen, pur influenzato da Hung-chih e critico verso Ta-hui, si concentra sull’importanza dello zazen come atto concreto e storico.
L’approccio di Dogen allo Zen, pur puro e focalizzato su Bodhidharma, riflette modelli comuni nelle strategie soteriologiche di altri riformatori buddisti giapponesi come Shinran e Nichiren.
Le ideologie di Dogen, Shinran e Nichiren cercano di definire la vera pratica del veicolo del Buddha Tendai, una pratica improvvisa basata sulla buddità stessa, non su pratiche graduali.
Il “buddismo selettivo” (senjaku) delle nuove scuole Kamakura, tra cui la pratica dello zazen per Dogen, rappresenta una semplificazione ma non una banalizzazione della pratica, essendo l’unica via per esprimere il più alto insegnamento. [/S]

C’è un senso ovvio in cui l’enfasi di Dogen sull’effettiva coltivazione dell’illuminazione sul lavoro spirituale (kufu) nel perseguimento della via (bendo) lo mette in compagnia del movimento di riforma Sung del k’an-hua Ch’an. Come Ta-hui, egli è chiaramente preoccupato di proteggere la fede dall’inerzia intrinseca del dharma ultimo, non duale,  e di rimettere l’insegnamento improvviso al servizio come veicolo religioso funzionante. Il suo Buddha può non avere un segno fisso, ma il fatto rimane, come dice in un  passaggio di pelle di Zazen, che Ta-hui avrebbe sicuramente voluto che tutti gli uomini potessero sedersi, ma non sono tutti Buddha seduti. Tuttavia, è altrettanto chiaro che Dogen ha il suo modo di salvare la fede. Infatti, mentre Ta-huiat almeno nelle sue lettere ai laici giustifica la sua pratica su basi psicologiche, riaffermando l’esperienza classica Ch’an del risveglio (wu) anti intuizione (chien) e mettendo in guardia contro la mera metafisica della mente originale, Dogen preferisce la via maestra della ragione (dori), appellandosi alla venerabile teoria Ch’an della pratica incontaminata per infondere il sentiero con il suo obiettivo e idealizzare l’effettiva condotta della vita religiosa.

È evidente che l’enfasi posta da Dogen sull’effettiva coltivazione dell’illuminazione attraverso il lavoro spirituale (kufu) nel perseguimento della via (bendo) lo mette in compagnia del movimento di riforma Sung del k’an-hua Ch’an. Come Ta-hui, è chiaramente preoccupato di proteggere la fede dall’inerzia intrinseca del dharma ultimo, non duale, e di mettere l’insegnamento improvviso al servizio come veicolo religioso funzionante. Il suo Buddha può anche non avere un segno fisso, ma il fatto rimane, come dice in un passo di pelle di Zazen che Ta-hui avrebbe sicuramente gradito, che tutti gli uomini possono sedersi, ma non sono tutti Buddha seduti.

[Pubblichiamo alcuni materiali relativi alla zen, alle sue origini e al suo sviluppo nella convinzione che molto si possa indagare non mossi da una intenzionalità speculativa e intellettuale, ma dall’esigenza di chiarire i cardini fondamentali del pensiero di Dōgen – e dello zen classico – quali, tra gli altri, l’equiparazione tra pratica e illuminazione o il senso stesso di pratica e tanto più quello di illuminazione. Cardini non secondari per la vita e l’esperienza di un contemplativo che a ogni istante del suo esistere si confronta con questi temi e dunque si interroga e propone la sua interrogazione.
Dopo la pubblicazione di alcuni materiali che preparino il terreno e illuminino su una complessità mai esaurita, affronterò questi temi:
1. La realtà che definiamo Essere, o natura autentica.
2. Cosa si intende per illuminazione nel Sentiero e l’irrealtà dell’illuminazione istantanea.
3. Cosa si intende per pratica e l’azzardato e relativo parallelo tra pratica e illuminazione.
4. La demitizzazione della nozione di pratica e di illuminazione e la reale tensione tra divenire ed Essere.
5. Formazione e contemplazione in una via spirituale nel XXI secolo. Qui la raccolta dei post]

Tuttavia, è altrettanto chiaro che Dogen ha il suo modo di salvare la fede. Mentre Ta-hui, nelle sue lettere ai laici, cerca di giustificare la sua pratica su basi psicologiche, riaffermando la classica esperienza Ch’an del risveglio (wu) e dell’intuizione (chien) e mettendo in guardia dalla mera metafisica della mente originaria, Dogen preferisce la strada maestra della ragione (dori), appellandosi alla venerabile teoria Ch’an della pratica senza macchia per infondere al sentiero la sua meta e idealizzare l’effettiva condotta della vita religiosa.

Questa preferenza per la teoria e l’ideale spesso fa sì che il modo in cui Dogen parla della pratica assomigli più agli avversari di Ta-hui che a Ta-hui stesso.
Infatti, sebbene non entri mai esplicitamente nella disputa tra mo-chao e k’an-hua, (due pratiche meditative, la seconda è il kōan, ndr) è chiaramente colpito dalla comprensione filosofica della meditazione da parte di Hung-chih (1091-1157) e altrettanto deluso dall’incapacità di Ta-hui (1089 -1163) di prendere la pratica più seriamente.

È comprensibile, quindi, che gli interpreti successivi, sia amici che nemici, che cercarono i precedenti cinesi per lo Zen di Dogen, lo collegarono all’illuminazione silenziosa e lo dibatterono nei termini metafisici e psicologici favoriti da Ta-hui e dai suoi contemporanei.
Eppure, alla fine, questi termini non sembrano essere adatti. Anche se possiamo, come ho cercato di fare qui, esplorare con profitto la dottrina di Dogen della pratica illuminata attraverso la filosofia classica Ch’an della natura del Buddha e dell’insegnamento improvviso (espressione equivalente “pratica illuminata”, ndr) e discutere il suo pensare di non pensare attraverso il vocabolario psicologico buddista standard della concentrazione e dell’intuizione, degli stati mentali passivi e attivi e simili, scopriamo presto che tali categorie non hanno ancora raggiunto quella che è probabilmente la caratteristica singola più sorprendente dell’insegnamento della meditazione di Dogen: lo straordinario significato religioso che egli attribuisce al fatto storico e all’atto concreto dello zazen. Alla fine, per apprezzare appieno questa caratteristica, dovremo forse uscire dalla tradizione cinese della meditazione Ch’an tanto amata da Dogen e incorporare altri modelli per la sua religione.

Dogen era un esponente intransigente dello Zen puro, che si concentrava quasi esclusivamente sul lignaggio di Bodhidharma e aveva poco interesse per le forme concorrenti di buddismo che lo circondavano in Giappone; eppure questa stessa esclusività esprime un approccio alla religione comune a molti dei suoi contemporanei negli altri movimenti buddisti della riforma Kamakura. Dogen insegnò la sua religione attraverso la lingua e la tradizione del cinese Ch’an; eppure, per molti versi, la struttura della sua religione riflette modelli familiari nelle strategie soteriologiche di scrittori giapponesi come Shinran e Nichiren.

Ciò non sorprende, dal momento che molte delle stesse questioni che determinarono le regole del discorso Ch’an in Cina, la teoria del supremo veicolo del Buddha e la pratica perfetta e improvvisa ad essa appropriata, erano state a lungo all’opera nel sistema Tendai dominante in Giappone, il sistema che inizialmente istruì Dogen, Shinran, Nichiren e altri leader della riforma.

Nonostante le loro ovvie differenze, in termini molto ampi, le ideologie di tutti e tre questi famosi pensatori religiosi possono essere viste come un tentativo di definire la vera pratica del veicolo del Buddha Tendai, una pratica improvvisa basata unicamente sulla verità assoluta della buddità stessa, non sull’upaya (sui mezzi, ndr) degli insegnamenti relativi e delle pratiche graduali.

Già durante il periodo Heian (794-1185, ndr) si era sviluppata all’interno del Tendai stesso l’idea che la teoria dell’insegnamento perfetto potesse essere meglio messa in pratica attraverso i tre misteri (sanmitsu) del mikkyoin, in cui gli atti fisici, verbali e mentali del praticante erano identificati con il corpo, la parola e la mente del Buddha e che i metodi tradizionali del bodhisattva-marga potrebbero essere sostituite dalle tecniche esoteriche del Vajrayana, tramandate nel lignaggio dei maestri tantrici.

Tali tecniche erano improvvise sia nella teoria che nei fatti: erano basate sul principio dell’identità tra uomo e Buddha e miravano alla piena realizzazione di tale identità in questa stessa esistenza. In questo senso il mikkyo (un buddhismo esoterico, ndr), che naturalmente nacque come movimento di riforma mahayana, aveva forti affinità con lo zen e con le altre scuole di Kamakura; e non sorprende che alcuni elementi di questo movimento abbiano avuto un ruolo significativo nel loro sviluppo.
Tuttavia, i sistemi esoterici regnanti di Shingon e Taimitsu furono essi stessi formulati in teologie altamente tecniche e praticati attraverso una serie graduale di complicate iniziazioni, meditazioni e rituali. In questo senso, non erano di per sé un veicolo adeguato per l’espressione del nuovo spirito della riforma Kamakura.

Lo spirito delle nuove scuole di Kamakura è spesso riassunto dall’espressione buddismo “selettivo” (senjaku). Questo termine, tratto in particolare dalla teologia della Terra Pura, si riferisce innanzitutto alla selezione, tra una molteplicità di esercizi spirituali (shogyo), di una pratica per la coltivazione esclusiva (senju). Nella stessa Terra Pura, ovviamente, questa pratica era la recitazione del nome di Amitabha (nenbutsu); per Nichiren era il “discernimento della mente” (kanjin), inteso ora nel suo senso esoterico come la recitazione del titolo del Sutra del Loto (daimoku). Per Dogen era semplicemente sedersi. In un senso ovvio, la selezione può essere vista come una semplificazione del buddismo e una riduzione della sua pratica a un singolo esercizio semplice e accessibile a tutti. Storicamente parlando, tale semplificazione era senza dubbio legata alle nuove condizioni sociali. […]

Tuttavia, questa visione storica non deve renderci ciechi di fronte al fatto che, per gli stessi fondatori di queste scuole, le pratiche da loro selezionate non erano semplici vie di salvezza, ma le uniche vere vie per esprimere il più alto insegnamento dell’unico veicolo. In quanto tali, non si trattava di semplici esercizi di convenienza basati sull’imperfezione dell’uomo, ma di pratiche improvvise derivate dal principio di una perfezione superiore.

Per Shinran, naturalmente, questo principio era dato dalla grazia universale del Buddha Amitabha; per Nichiren, era fondato sull’eternità del Buddha Sakyamuni. Per Dogen, risiedeva nella Buddità incorporata nella struttura stessa della coscienza. In qualunque modo fosse definito, le pratiche derivate dal principio non portavano, in ultima analisi, a nulla: dovevano piuttosto essere l’espressione, nell’azione del praticante, della sua accettazione e del suo impegno nei confronti del principio. In questa espressione l’obiettivo della pratica era già raggiunto. Come direbbe Dogen, la pratica e la sua verifica non sono diverse.

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