Con il dialogo fra il quarto e il quinto Patriarca compare per la prima volta l’espressione natura autentica niente.
Notiamo, intanto, come la storia leggendaria della nascita, dell’abbandono e della sopravvivenza provvidenziale di Daiman riproponga un mito presente in molte tradizioni, fra cui quella biblica per certi aspetti della vicenda di Mosé. L’assenza di un padre ne fa un emarginato, soprattutto nella Cina antica in cui il casato era tutto. Nella tradizione Zen cinese vi sono molti personaggi di grande levatura spirituale che socialmente sono all’ultimo gradino: in questo caso la condizione di figlio di nessuno permette di dare maggior rilievo al gioco del nome che c’è e non c’è.
Il dialogo fra il quarto e il futuro quinto Patriarca è tutto volutamente giocato sul filo dell’equivoco: non dobbiamo lasciare che questo senso dell’umorismo vada perduto, perché è caratteristica costitutiva dello Zen cinese, così diverso in questo dalla serietà a volte un po’ plumbea dello Zen giapponese.
Il quarto Patriarca chiede al ragazzino come si chiama, e questa è certo una domanda ovvia e nello stesso tempo indagatrice: lui sa che il ragazzino è un trovatello, un senza nome, ma ne riconosce anche le doti eccezionali, e vuole vedere come se la cava di fronte a una domanda apparentemente innocente ma in realtà imbarazzante. Non solo: la domanda «Tu, quale è il tuo nome?», così come quella «Tu, da quale luogo vieni?» che troveremo in seguito, sono le questioni più banali che si possano rivolgere a un nuovo venuto, le quali celano un significato per nulla banale.
All’orecchio della persona della via, che vede ogni situazione come espressione della via, la domanda «Tu, quale è il tuo nome?» suona «Tu, lo sai che il tuo nome è quale?»: dove quale è il modo di dire la natura universale di ogni natura individuale. Chi ha orecchio intende la domanda in quel senso, chi non ha orecchio risponde semplicemente dicendo il proprio nome.
Il ragazzino risponde: «Certo che un nome ce l’ho, ma non è il nome che di solito tutti hanno». Qui ancora gioca sull’equivoco: «Ho un nome cui rispondo se mi chiamano, ma non è il nome di mio padre, come tutti hanno» – ma anche – «Ho ben capito cosa mi hai chiesto, il nome evidente, che è la mia vera natura, non è il nome comune, che è solo convenzionale. Un nome convenzionale non può esprimere la vera natura dell’essere che io sono, essendo quello che sono».
Il quarto Patriarca dicendo: «Questo quale nome è?» indica che la domanda è il modo più esauriente di nominare il nome che dice la vera natura dell’essere. Questo, la realtà concreta della vita vissuta, è quale, la realtà assoluta oltre ogni nome. È nell’inesauribile risorgere della domanda sul modo in cui questo è il nome (la funzione viva) di quale, sul modo in cui quale è il nome (la realtà ontologica) di questo, che si attua il cammino della persona della via nei gesti più normali della vita quotidiana, come bere il tè e preparare il cibo.
Il futuro quinto Patriarca sa bene di cosa si sta parlando e afferma: «Il mio nome è natura autentica». Così dicendo indica chiaramente il principio fondamentale per cui tutto ciò che è è natura autentica. Però, non ci si può riposare su questa asserzione, come se volesse semplicemente dire “tutto è sempre e comunque natura autentica”. Certo, ogni nome è in realtà il nome della natura autentica, ma perché sia davvero concretamente così è necessario andare oltre ogni nome: «il nome è davvero il nome quando è spogliato da tutto, quando passa attraverso tutto». Quando questo è non questo, allora è veramente natura autentica, veramente questo. Quando arrivo al mio io nudo, senza nome, allora il mio nome convenzionale è il nome adatto della mia autentica natura: ma questo non lo eredito da mio padre, da mia madre, dai miei antenati.
Adesso possiamo udire il quarto Patriarca che per la prima volta usa l’espressione natura autentica niente. Comprendiamo bene che la natura autentica non è un ente. La natura autentica non è qualcosa che si afferra e si conosce, che si trova qui o lì. Ma proprio perché è niente, diffusa ovunque senza limiti, dobbiamo interrogarci sul senso di questo essere niente: è così nel momento in cui si giunge al termine del cammino? O è così fin dall’inizio, dal momento in cui ci convertiamo a vivere la vita come via? È così come risultato della pratica?
[→uma] “La natura autentica non è qualcosa che si afferra e si conosce, che si trova qui o lì. Ma proprio perché è niente, diffusa ovunque senza limiti, dobbiamo interrogarci sul senso di questo essere niente”.
– “Non è qualcosa che si afferra e si conosce“: ho numerosi dubbi su questa affermazione. L’esistere stesso a me sembra che sia un divenire consapevoli della natura autentica: se la natura autentica è già da sempre e per sempre aldilà del divenire, che senso ha l’accadere del sentire di adesso se non quello di rendere consapevole il Ciò-che-È?
Perché il divenire se il Ciò-che-È è già? Non c’è logica nell’illusione del divenire? O il divenire è il momento consapevole dell’Essere e cessa la sua illusorietà nel momento in cui viene sentito come Essere e non altro? E dunque tutto l’itinerare umano nelle molteplici vite e manifestazioni non è che un viaggio della consapevolezza nell’Essere e nella sua sostanza?
Certo, non c’è soggetto che possa afferrare e conoscere l’Essere, la natura autentica, ma essa può essere sentita e il vivere non è altro che questo divenire consapevoli di innumerevoli gradi di sentire, fino al sentire più compiuto e strutturato che pone fine alla ruota del saṃsāra.
Nel divenire – di questa dimensione parliamo – un sentire non evoluto non sente come un sentire evoluto quindi c’è una evoluzione del sentire, una sua trasformazione che obbedisce alle leggi che regolano il sentire e che si riflettono nella molteplicità delle rappresentazioni: c’è dunque conoscenza e comprensione e mutamento nella consapevolezza.
– “È niente “: niente di definibile dall’umano ma anche niente che possa essere sentito? Torna ancora una volta il tema della differenza tra decodifiche dei corpi transitori dell’umano e sentire e finché non lo si risolve si continuerà a dire che ciò che è oltre la percezione e le facoltà umane è niente, ma questo perdurare ci castra nella possibilità di codificare linguaggi e simboli di un’altra esperienza, quella del sentire.
– “Diffusa ovunque senza limiti“: bisognerebbe comprendere la portata di questa espressione di Jiso, se intende che la natura autentica non è individuale (per individuale non intendo soggettiva, attenzione) ma è un unicum indifferenziato, ho qualche perplessità perché non affonda l’analisi nella complessità della dimensione di Essere che, appunto, non è un indistinto ma una complessità determinata dal principio delle fusioni dei sentire: 1+1=3, sentire equipollenti si fondono e generano un sentire più ampio che contiene in sé i costituenti ma li trascende nell’ampiezza e struttura del sentire terzo. Questo è il processo che conduce dal sentire della pietra a quello del Tutto-Uno secondo la conoscenza esoterica, è il motore dell’illusorio divenire, la legge che governa il sentire e i vari gradi (illusori anch’essi) dell’Essere. [/uma]
[→uma] “È così nel momento in cui si giunge al termine del cammino? O è così fin dall’inizio, dal momento in cui ci convertiamo a vivere la vita come via? È così come risultato della pratica?”
È così fin dall’inizio, nella dimensione dell’Eterno Presente, e diventa consapevole e/o realizzata (perché può anche non essere consapevole), alla fine del saṃsāra.
Quando ci “convertiamo” alla Via non facciamo altro che incarnare uno stato di sentire più evoluto e per ogni stato di sentire realizzato corrisponde una possibilità incarnativa della natura autentica e della sua eventuale consapevolezza.
Essendo tutto – ogni grado di sentire – natura autentica – nella logica contemplativa, dell’Essere e dell’Eterno Presente – non c’è un momento topico, momento che c’è invece nell’ottica del divenire dove stati successivi di sentire conseguono e terminano in un sentire strutturato finale (per l’umana avventura, non in assoluto).
“È così come risultato della pratica?” Direi proprio di no. L’umano vive innumerevoli vite e attraverso queste manifestazioni ed esperienze si struttura e amplia il sentire, il corpo della coscienza o corpo akasico: è il sentire che evolve che manifesta se stesso attraverso la pratica, non l’inverso, non la pratica che genera in modo specifico e peculiare un sentire più ampio, tuttalpiù lo consapevolizza.
La pratica, segno tangibile di un sentire, è interna a una ecologia di vita e sono le relazioni e le esperienze di vita quotidiana che forgiano e ampliano il sentire: la pratica dispone nel migliore dei modi alle esperienze e al loro costrutto. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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