La natura autentica è niente, non come negazione di qualcosa che è, ma in quanto è vuoto, non ha la consistenza di un oggetto, di un qualcosa. Vuoto, niente, non descrivono una privazione, una mancanza, un non essere.
Sono termini che, appunto, non descrivono: non sono misure al negativo.
[→uma] Indubbiamente è come Jiso dice, ma a ottocento anni da Dōgen e a due millenni e mezzo da Śākyamuni non abbiamo ancora un linguaggio simbolico per definire la sottrazione di tutte le categorie umane e l’affermarsi di altro. Perché? Sia in ambito buddista che cristiano si reitera un immaginario simbolico che è decisamente povero per l’individuo di questo tempo, un immaginario che, basandosi sulla sottrazione, non osa definire una varietà di stati di coscienza che pure sono oggetto di esperienza e sperimentazione e che chiedono di essere trasmessi in modo efficace per la semplice ragione che accadono e la loro conoscenza può aiutare chi si affaccia su mondi sconosciuti.
Senza linguaggi adeguati non c’è trasmissione adeguata ed è fuori da ogni logica continuare a interpretare le proprie esperienze utilizzando i simboli degli antichi. Si pensi all’assurdo del simbolismo cristiano che ancora utilizza il termine “Padre” per indicare il Tutto-Uno.
Abbiamo il timore, superando il linguaggio negativo/sottrattivo di affermare un nostro nuovo protagonismo?
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
Né, in questo caso, vuoto è usato nell’accezione di insostanzialità, come quando si afferma le forme altro non sono dal vuoto. Quest’ultima affermazione sta a indicare che nessuna forma sussiste in se stessa, ma è in forza dell’interdipendenza di ogni cosa con tutte le altre: non vuole dire che prima o poi ogni forma diviene vuota, scompare, né che le forme scaturiscono dal vuoto.
[→uma] Tema sconfinato non risolvibile facilmente: esiste una realtà oggettiva aldilà della percezione soggettiva? O la realtà esiste perché c’è relazione tra il percepito e il percettore? Affronteremo il tema nei prossimi post – se ci sarà modo – a partire da quanto Jiso dice sulla interdipendenza [busshō6.5]. [/uma]
Invece, il vuoto di cui qui si parla è l’infinito senza limite non occupato da niente: è il vuoto incommensurabile, la cui immagine è il cielo che nulla può riempire, occupare, limitare o ferire. Questo è la natura autentica che è niente, è vuoto, è essere. Qui sta la domanda e la risposta: la domanda che richiama la risposta, la risposta che rigenera la domanda.
[→uma] “È l’infinito senza limite non occupato da niente: è il vuoto incommensurabile”. Ho perplessità irriducibili rispetto a quanto qui affermato: qui non si parla del Grande Boh della Vdc ma di un vuoto infinito. Resterebbe da capire come da un vuoto infinito possa nascere qualcosa, una manifestazione di qualsiasi tipo, come questo vuoto così assoluto possa costituire un Essere, come viene poco dopo affermato: “Questo è la natura autentica che è niente, è vuoto, è essere”.
All’inizio del post Jiso afferma: “Vuoto, niente, non descrivono una privazione, una mancanza, un non essere. Sono termini che, appunto, non descrivono: non sono misure al negativo”.
Non c’è differenza da poco tra il niente che non è privazione e il niente che è vuoto incommensurabile: di fronte a questo concezione di vuoto perché siamo qui a discutere e non andiamo al mare?
Forse non riusciamo a comprendere uno stato di Essere che non sia entro i parametri umani e vuoto di ogni attribuzione umano? Ma direi che questo non vado nominato come vuoto/niente, semmai come il Grande Boh della Vdc.
Discussione che attraversa i millenni e che vede posizioni differenti e che di certo non risolveremo noi, staremo a vedere, perché ci interessa, dove conduce la comprensione di Jiso di questo vuoto, e se è anche la comprensione di Dōgen e dello zen.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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