Al commento di Jiso a Busshō 6 – concluso in 6.4 – aggiungiamo questo suo approfondimento del concetto di interdipendenza, questione cardine nel Buddhismo. Fonte. Nei prossimi post proseguiremo con Busshō 7.
Interdipendenza è un concetto che, nella nostra sensibilità, assume ormai una molteplicità di significati ed è ricco di suggestioni, di risonanze, di rimandi che aprono scorci di panorama tanto su paesaggi familiari quanto su lande inesplorate. Vengono subito alla mente le circostanze che costituiscono l’intreccio della nostra esperienza di vita, le connessioni con l’ambiente, con il prossimo, con le vicende storiche, gli effetti della cosiddetta globalizzazione, le influenze reciproche fra realtà apparentemente lontane e scollegate ma di fatto interagenti e che determinano effetti anche nelle modalità della nostra vita quotidiana. L’orizzonte si restringe fino al microcosmo o si dilata oltre la portata di ogni vista, e rischiamo di perderci, di confondere i piani, di confinare nell’ambito teorico un argomento che riguarda quant’altri mai la realtà pratica e concreta.
Per aiutarci a non perdere il filo, conviene allora prendere il bandolo della matassa, e riandare un momento a rivisitare il modo in cui, nel pensiero buddista, si è colto il significato di ciò che oggi, con termine generico, noi chiamiamo interdipendenza. Questo non per esimerci, rifacendoci all’autorità dei testi canonici, da una ricerca personale e diretta, né per utilizzare la visione tradizionale come filtro per interpretare la realtà che stiamo vivendo: sarebbe un uso improprio dei testi, contrario al loro spirito e alla loro ragion d’essere, che è quella di farci aprire gli occhi e non di mettere ottimi occhiali da vista sulle palpebre chiuse.
Si tratta invece di farci aiutare a orientarci da chi ci ha preceduto e ha esaminato la problematica in altri contesti e con altra sensibilità culturale, in modo da darle una dimensione non univoca e interpretazioni non troppo caratterizzate dai segni dei tempi e della contingenza.
In quest’ottica credo sia non solo legittimo ma addirittura non evitabile situare il punto di partenza di una riflessione buddista sul significato di interdipendenza proprio là dove l’antica e sempre attuale terminologia classica fa venire alla luce il termine in lingua pali paticca samuppada e il suo equivalente sanscrito pratitya samutpada, che useremo d’ora in poi.
[…] Pratitya vuol dire letteralmente “andando verso, in funzione di” – samutpada vuol dire, letteralmente “mutua originazione, germogliare insieme” – l’espressione è stata tradotta, soprattutto in ambiente europeo, in tanti modi, i più usati dei quali sono “originazione dipendente, produzione condizionata, co-originazione interdipendente”. Quale che sia la terminologia che si preferisce usare, ciò che conta è che si tratta della comprensione centrale del buddismo, fin dalle origini: quel termine indica l’intuizione, da parte di Siddharta Gotama, del meccanismo che determina l’esistenza fenomenica, e, con essa, la sofferenza.
Secoli dopo, a significare che il passare del tempo non ha attenuato la luce emessa da quella scoperta, un sutra afferma: “Chi vede pratitya samutpada vede il dharma, chi vede il dharma vede il Risvegliato”.
Le descrizioni che i testi offrono sono numerose, alcune differiscono dalle altre, anche in maniera significativa, sia per quanto riguarda la formulazione dottrinale di quell’intuizione, sia per quanto riguarda le interpretazioni che essa dischiude. Non è questa certo la sede opportuna per affrontare la questione da questo punto di vista: ognuno approfondirà questo studio nell’ambito della propria pratica personale. Quello che ora ci interessa capire è come mai quella comprensione sia risultata così importante da condurre Siddharta al risveglio, e cosa può rappresentare per la nostra vita di buddisti o, più semplicemente, di esseri umani.
In poche parole, essa significa che all’occhio ridesto la fisionomia della vita si rivela come una concatenazione di accadimenti reciprocamente dipendenti che si generano l’uno dall’altro, e che, a livello di vita senziente, qui si genera, inevitabile, la sofferenza.
Può essere intesa come il meccanismo “intrinseco” di ogni forma di vita, che fa venire in essere tutto ciò che è, che fa perire tutto ciò che viene in essere.
Può essere intesa come il meccanismo cosmico che connette fra loro tutte le esistenze, nessuna delle quali scaturisce dal nulla, causa di sé o manifestazione senza causa, ma ognuna è correlata necessariamente a ogni altra, in una vertiginosa trama.
Provo a descrivere il meccanismo intrinseco con la “metafora della prigione”. Buddha ha compreso e ci invita a comprendere che la realtà è una prigione. Una prigione che incatena, una catena fatta di un materiale, variamente descritto, ma che molto sinteticamente potremmo chiamare col nome, circolare, di “nascita per la morte”.
Tutto ciò che costituisce la realtà è fatto di questo materiale, non ce n’è altro, non si scappa: questa è la prigione, sede della sofferenza di tutto ciò che viene in essere. Buddha ha compreso e ci invita a comprendere che la prigione è prigione perché non si scappa e non c’è altrove: e soprattutto perché qui sono io. La prigione è la mia prigione perché qui sono io. È questo che fa della prigione una prigione.
Buddha ha compreso e ci invita a comprendere che io sono in prigione, non perché sono “dentro” una prigione, ma perché la prigione sono io: sono fatto dello stesso materiale (ininterrotta nascita-morte) della catena. La prigione sono io, ovunque io sono, lì è la mia prigione. Non c’è fuori. E dove non c’è fuori, non c’è dentro. Se comprendo davvero fino in fondo la natura della prigione, che è la mia natura, allora vedo che la prigione non ha muri, non ha barriere, non ha alternativa.
Io non posso uscire, non perché non riesco a uscire: non posso uscire perché non sono dentro. C’è la prigione, se guardo il fenomeno nascita-morte come fenomeno: il prigioniero non c’è. C’è il prigioniero, se guardo me come attore, io come esperienza personale di nascita-morte: i muri della prigione non ci sono. La libertà non è oltre, non è dopo la prigione: libertà è smettere di separare dentro e fuori, inizio e fine: dove non c’è fuori non c’è dentro, dove non c’è fine non c’è inizio.
Buddha ha visto e ci invita a vedere che la libertà che viene col “comprendere davvero fino in fondo”, con lo “smettere di separare”, non è una meta da raggiungere, è il percorso di tutta la vita, di tutta la mia vicenda. Momento per momento, passo passo, io non vado verso la liberazione che è posta là, oltre la prigione: io sono sempre qui, e il qui che non ha altrove, l’ora che non ha altrora, è la sede, è il tempo della mia vita, della mia via.
È su questo sfondo di comprensione che c’è il senso dell’interdipendenza. Non c’è uscita dal ciclo della vita, non c’è uscita dal ciclo della storia.
È un interrogativo ricorrente, per un buddista occidentale, la domanda sul senso della storia. Qui, nel regno dell’escatologia, laica e religiosa, come si può eludere la domanda: dove va la storia? Va dappertutto, senza dirigersi verso nessun luogo. Noi non andiamo verso un mondo migliore, né verso uno peggiore. O meglio, non è questo che ci occupa. Certo, l’auspicio a un mondo dove l’umana ingiustizia abbia sempre meno spazio è non solo da condividere teoricamente, è un impegno cui prendere parte attiva. Ma non è questo il tutto del nostro lavoro. Noi non abbiamo come scopo di migliorare il mondo, perché per migliore che sia, questo mondo è sempre fatto così, circolare tessuto di nascita e morte: ogni vita che viene a essere, deve sempre vedersela con questa realtà.
Noi non dobbiamo cambiare il mondo, perché il mondo trascorre, non cambia: il nostro lavoro è, piuttosto, convertire il mondo, così com’è. Che non vuol dire convincere qualcuno a diventare buddista, a cambiar religione, a diventar religioso se non lo è. Vuol dire convertire lo sguardo, guardare la prigione e vederla come il terreno della libertà, da riconoscere, da amare, da raccontare, da condividere. Da tenere pulito, cioè da ripulire tutte le volte, innumerevoli, che si risporcherà.
Qualcuno ha detto che percorrere la via è come svuotare il mare con un cucchiaio: prendiamo per buona anche questa metafora. Se così è, per un’opera del genere, che importanza può avere se uso un cucchiaino da caffè o un mestolo gigante? Che valore assoluto possono avere i miei individuali talenti, la mia capacità? Serve più fede, che non bravura. Per un’opera del genere, che importanza può avere se il mare è calmo o se è in tempesta? Che valore assoluto possono avere le circostanze, favorevoli o avverse? Serve più passione, che buona sorte.
Non dobbiamo realizzare un mondo che non c’è: dobbiamo togliere peso dal mondo che c’è. C’è un’altra descrizione di pratitya samutpada, in un antico sutra: “Questo essendo presente, quello accade; col sorgere di questo, quello sorge. Questo essendo assente, quello non avviene; col cessare di questo, quello cessa”. Non altro il bagaglio per avventurarsi sulla via.
Celebrazione del Vesak, Napoli 28 maggio 2005. Fonte
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