Vale qui la pena di fare un breve inciso, per ricordare che il sesto Patriarca cinese, Hui Neng (Daikan Eno in giapponese – 638~713) è una della più grandi figure del buddismo cinese, cui si rifanno tutte le tradizioni che oggi noi conosciamo sotto il nome di Zen.
Era un boscaiolo analfabeta, poverissimo, che manteneva l’anziano madre e se stesso vendendo la legna raccolta. Un giorno udì accidentalmente una persona che recitava un verso del già citato Sutra del diamante (vedi pag.37) e il richiamo di quel verso spalancò una vocazione irresistibile. Abbandonò tutto, il lavoro, la casa e la madre (ed è narrata la sua pena per questa separazione, e il racconto vuole che una notte in sogno la madre ormai defunta comparisse a ringraziarlo), e si recò a piedi fino al lontano monastero del quinto Patriarca.
Doghen riferisce appunto del suo arrivo. Dopo quel colloquio, per otto anni fu di servizio alla pulizia del riso, senz’altra incombenza e senza partecipare alla pratica religiosa. Un giorno il quinto Patriarca, ormai anziano e incerto nella scelta del proprio successore, chiese ai monaci di comporre ciascuno un breve testo in forma di poesia, riguardante il senso della via di Budda. Colui che avesse composto i versi che esprimevano la comprensione del cammino più diretta e profonda, sarebbe stato l’erede.
Hui Neng nulla sapeva di tutto ciò e continuava il suo umile lavoro. Il primo monaco del monastero, il discepolo più anziano del quinto Patriarca, scrisse dei versi che cantavano la mente come specchio della natura di Budda di ciascuna cosa, specchio che va tenuto pulito da ogni granello di polvere tramite la pratica religiosa assidua e costante. Il quinto Patriarca non fu del tutto soddisfatto, ma non si trovò di meglio: fece allora esporre quei versi in un luogo pubblico ma decise di attendere ancora un po’ prima di nominare quel discepolo suo successore.
Hui Neng passò per caso di fronte ai versi esposti, li notò e se li fece leggere: poi compose egli stesso altri versi a voce, chiedendo a un monaco di scriverli e di apporli sotto agli altri: quei versi dicevano che non vi è né mente né specchio, e dove mai allora potrebbe posarsi la polvere? Il quinto Patriarca passò di lì, lesse i versi e subito comprese che chi li aveva dettati era l’uomo adatto; seppe che si trattava della persona addetta alla pulizia del riso, lo chiamò di nascosto di notte nella sua cella e gli trasmise la sua eredità religiosa, passandogli come segno formale il suo manto di monaco e la sua ciotola. Poi gli consigliò di allontanarsi dal tempio, in attesa che sbollisse la gelosia degli altri monaci. La storia vuole che dopo non poche persecuzioni Hui Neng fu accolto con ogni onore come abate e Patriarca e sappiamo che divenne il più grande maestro dei suoi tempi e che da lui prese impulso e si diffuse ovunque in Cina quella tradizione che si diramò poi nelle cinque scuole dello Zen cinese. È da notare che anche l’altro discepolo divenne un grande maestro e fiorì nella sua scuola.
Chiarito dunque il quadro, stabilito il tenore della coscienza del personaggio che gli sta di fronte, il quinto Patriarca affonda il coltello: «L’uomo delle cime del Sud è natura autentica niente, come puoi costruire Budda?». Ci sono differenti livelli in questa frase. Il più immediato è che egli dice: “Tu che sai di dove vieni e cosa sei venuto a fare, sai anche che sei nulla e che nulla non costruisce nulla? Fai i conti con questo modo di essere della realtà? Se ignori questo, il Budda che pretendi di costruire non è che un fantasma della tua immaginazione”. Glielo dice in maniera urtante, perché all’epoca in Cina le persone del Nord consideravano inferiori quelle del Sud (!) e quindi all’orecchio di uno del Sud la frase: “L’uomo delle cime del Sud è natura autentica niente” suona anche volutamente dispregiativa.
Il maestro sembra dire: “Tu, che quando ti chiedo da dove vieni, mi dai la più convenzionale delle risposte dicendomi il tuo luogo geografico di provenienza, e poi quando ti chiedo che cosa sei venuto a fare sposti il discorso sul piano religioso e affermi che vieni nientemeno che a costruire Budda, sei in grado di accettare senza recriminare il fatto che sei una nullità, tanto sul piano religioso che su quello convenzionale?”. La lettura degli ideogrammi cinesi induce a un’interpretazione della frase, tipo “Un uomo del Sud non ha la natura autentica”, qualcosa come la frase del Vangelo: Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono? (Gv 1,46). Ma Doghen non crede in questa lettura, e allora aggiunge una virgola, che nel testo del dialogo in cinese non c’è, fra «L’uomo delle cime del Sud»e «è natura autentica niente», e così facendo rende chiaro il carattere dell’affermazione. Vediamolo meglio.
Questo «L’Uomo delle cime del Sud, è natura autentica niente» non vuol dire che l’uomo dei monti del Sud è senza natura autentica, e neppure che ha la natura autentica, ma dice solo: «Uomo delle cime del Sud, natura autentica niente». Dire «Come puoi costruire Budda?» significa: «Quale modo mai di costruire Budda ti aspetti?». Il quinto Patriarca non ha alcuna intenzione di stabilire in modo dogmatico l’esistenza o meno della natura autentica: è molto importante capire questo punto, perché ci aiuta a liberarci dall’idea che la tematica religiosa sia confinata negli schemi di un ragionamento dialettico che si basa sul principio di non contraddizione, per cui affermare: la natura autentica è niente, significa negare che la natura autentica sia la natura autentica.
Credere nella natura autentica non ha a che vedere con le affermazioni sull’esistenza o meno della natura autentica: la fede nella natura autentica è un’apertura che ci proietta oltre le categorie dell’essere e del non essere. Così come la fede in Dio, se è fede e non solo ipotesi di fede, non è influenzata dalla problematica sull’esistenza o meno di Dio: un Dio di cui si possa provare o negare l’esistenza non è Dio, ma una fabbricazione umana che ricade nell’ambito di quelle categorie del pensiero umano che proprio la fede in Dio dovrebbe far superare. L’Io sono di Dio non è scalfito o messo in crisi dal non essere di Dio e viceversa: e così è per la natura autentica.
Semplicemente, il quinto Patriarca sta dicendo: “Tu definisci te stesso uomo dei monti del Sud; io definisco il mio essere con l’espressione la natura autentica niente [questa infatti è una frase caratteristica di quel maestro per esprimere la realtà di ogni se stesso]. Allora, come si può costruire Budda? Non avrai forse delle convinzioni personali sul modo di costruire Budda? Perché le convinzioni personali preconcette sono l’ostacolo che preclude la possibilità di costruire Budda”.
[→uma] Della domanda: “Allora, come si può costruire Budda?” parleremo nel prossimo post, ora, mentre leggevo e riflettevo mi è sorto il dubbio che non si sia compresa la realtà della semplice risposta del sesto Patriarca.
Il capitolo 7 inizia così: “Quando il sesto Patriarca cinese, il maestro Daikan del monastero Sokei, si recò in pellegrinaggio al monastero Obai, dove risiedeva il quinto Patriarca, questi gli chiede: «Tu, da quale mai luogo vieni?». Il sesto Patriarca dice: “Io sono uno delle cime del Sud“
“Io sono uno”, uno qualsiasi senza importanza di un luogo noto per essere senza importanza. In realtà, la semplice risposta può essere tutt’altro che banale e può dichiarare per intero come il sesto Patriarca vedeva se stesso. L’incontra tra il quinto e il futuro sesto Patriarca può dunque non avere un incipit così ovvio, ma può essere uno scambio in cui entrambi mettono in gioco una grande profondità.
Il quinto Patriarca va a scandagliare chi è il nuovo arrivato e il sesto, in sintonia con il sentire del suo interlocutore, risponde con una sottrazione: “Sono uno qualsiasi”. Compresa la disposizione del sentire di chi ha di fronte, il quinto mette in campo la questione centrale: «Sei venuto a cercare che cosa?».
Il sesto Patriarca risponde: «Cerco il modo di costruire Budda».
Il quinto Patriarca dice: «L’uomo delle cime del Sud è natura autentica niente, come puoi costruire Budda?».
Quest’uomo che non si presenta col suo nome, che si mostra una sottrazione, un vuoto, al quinto Patriarca sembra che sia già quella natura autentica che va cercando, anche se non ne è consapevole: i due si sono riconosciuti nel sentire proprio a partire dalla sottrazione di sé proposta dal sesto, e tutta la discussione successiva è fondata su quella intesa/intuizione nel sentire: la storia dice che il sesto per otto anni è stato addetto alla pulizia del riso “senz’altra incombenza e senza partecipare alla pratica religiosa”, una occupazione certamente in linea con “uno qualsiasi” e che ha come cifra il perdere.
Quando il sesto scrive “non vi è né mente né specchio, e dove mai allora potrebbe posarsi la polvere?”, dopo otto anni a pulire il riso senza praticare se non quell’umile lavoro che, evidentemente, era la sua pratica, il cerchio si chiude: uno qualsiasi vive da uno qualsiasi e conosce l’indistinto Essere proprio nella sottrazione di sé, nel perdere, nella irrilevanza.
L’esperienza del sesto Patriarca è paradigmatica:
– viene dalla periferia del mondo;
– non ha cultura legittimata;
– non segue un iter formativo convenzionale;
– si dedica senza riserva alla via che sente;
– vive alla periferia dello stesso mondo che lo ospita;
– emerge per quel che è nel sentire, per il compreso, solo per questo.
Ho preso a pretesto questo racconto per dire quante volte, abbastanza poche in realtà, si è presentato qui – nel Sentiero – qualcuno che avesse la disposizione autentica per affrontare questa via e come, fin dalle prime battute e dai primissimi incontri, si palesasse chiaramente il possibile sviluppo. Fin dall’antichità si ripete il rito dell’incontro autentico tra persone della via, incontro che avviene innanzitutto nel sentire, da questo generato e sviluppato nel tempo, incontro al quale siamo condotti quando in noi c’è sufficiente ascolto, sottrazione della nostra centralità, obbedienza al disegno esistenziale.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
- → Contemplare il paradigma del Cerchio Firenze 77:
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