Che cos’è una pratica nell’ottica del Sentiero

Definiamo pratica il movimento autentico, lo yoga, il tai chi, il do in, il canto, la pittura, la danza quando abbiano assunto una forma strutturata.
In sé queste pratiche hanno la loro funzione nei processi che portano la persona alla conoscenza, alla consapevolezza, alla comprensione.
In sé non sono necessariamente pratiche integrabili nel Sentiero e possono da esso anche essere lontane o allontanare.
Qual’è la specificità del Sentiero? Proporre, sperimentare, vivere la manifestazione di sé e il proprio superamento simultaneamente.
Una pratica, qualunque pratica e quindi anche quelle non strutturate, compreso il lavorare, il far l’amore, il camminare, può essere vissuta come simultaneità dell’esserci e dell’essere.
Il sentire, il pensiero, l’emozione, l’azione sono simultaneamente sé e superamento di sé.
Di questo deve essere consapevole la persona del Sentiero, colui o colei che si impatta con il nostro insegnamento ma, soprattutto, di questo debbono essere consapevoli coloro che guidano una pratica.
Chi guida deve vivere in sé la simultaneità della manifestazione dell’umano e il suo superamento. Se questo è consapevolezza vivida in chi guida, diverrà impronta in chi è guidato.
Quella pratica non sarà soltanto una pratica fisica, energetica, meditativa, sarà vita unitaria dell’essere.
Se chi guida è prigioniero della forma della pratica che insegna educherà prigionieri e non persone libere. Chi guida deve aver interiorizzato la pratica, la sua funzione, ciò che porta nella vita e nella struttura della persona, e deve aver compreso che essa è solo strumento di conoscenza, consapevolezza, comprensione, non un totem.
Chi guida, se ha compreso, deve essere capace di manipolare la propria pratica così come si manipola la pasta del pane, deve saperne fare una pagnotta o un biscotto farcito o un grissino e deve sapere quando è ora di buttarla nel buzzo del compost.
Chi guida deve avere il coraggio di distruggere e destrutturare ciò che ha imparato per farlo rivivere in maniera nuova sulla base delle nuove comprensioni acquisite.
Una pratica è comprensione in atto: cambiando, ampliandosi le comprensioni, cambia la pratica.
In genere si dice che praticando si compenetra più a fondo il praticato: purtroppo non si osa modificarlo più di tanto, o non si osa modificarlo affatto. Vi chiedo: chi l’ha strutturato come ha fatto?
Una pratica l’ha strutturata una sola persona o è il frutto di un processo e della dedizione di chissà quante persone, allievi e maestri insieme che hanno proceduto di tentativo in tentativo, di modifica in modifica, di acquisizione in superamento? Quand’è che finisce il processo e chi stabilisce che è finito e può innovare solo un maestro?
Tutto si trasforma perché tutto è espressione del dinamismo del sentire che mai è eguale a se stesso.
Bisogna osare cambiare tutto e lasciarsi cambiare da tutto.
Una pratica può essere vissuta come frammento, come totem, come disciplina o come totalità unitaria dinamica, noi coltiviamo questo secondo aspetto sapendo che passa per il primo e per il suo superamento.
Alla luce di questo possiamo affermare che non esiste alcuna pratica ma solo l’atto del vivere che mai è eguale a se stesso.

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Francesca Bona

Olé!

Alessandro

chiarificazione esaustiva di ciò che ci avevi già accennato, anzi ce ne avevi proprio parlato già chiaramente all’ultimo tarlo.
con questa puntualizzazione il sentiero richiama ad un tentare il nuovo modificandone ogni volta la forma.
grazie.

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