Ho letto l’intervista che Eleonora Fortunato ha fatto a Giorgio Israel, professore di matematica all’Università “La Sapienza” di Roma e membro dell’Academie Internationale d’Histoire des Sciences, riguardo ai Test Invalsi. L’analisi fortemente critica che il professore fa di questi test di valutazione scolastica, è illuminante e invito pertanto a leggerla.
Vorrei soltanto comunicare alcune riflessioni. L’intervista mi ha riportato a quando ero insegnante e ha richiamato il fortissimo disagio, che ho vissuto allora, nel dover sottoporre agli alunni i suddetti test.
Quando ho avuto per la prima volta sotto gli occhi i quesiti preparati per una seconda classe di scuola primaria, sono rimasta scioccata dall’astrattezza e dalla difficoltà delle domande.
Pensavo: “Come possono tradurre, i nostri alunni, il linguaggio di queste consegne in qualcosa a loro comprensibile, dal momento che durante la somministrazione sono vietati qualsiasi chiarimento o spiegazione non dell’esercizio, ovviamente, ma delle consegne stesse?
Ora sappiamo, perché succede anche a noi adulti, che di fronte ed una novità abbiamo bisogno di un po’ di tempo per comprenderla ed adattarci ad essa e, spesso, di qualche esperto che ce la chiarisca.
Per acquisire certe competenze di base, inoltre,sappiamo che ci sono diverse strategie per arrivarci ed un alunno può sentirsi disorientato o inadeguato se si trova a dover utilizzare una strategia che non conosce o non padroneggia.
Da ciò è nata la necessità di preparare i ragazzi ai test, non di prepararli a risolvere in modo creativo e dunque personale un problema, ma semplicemente a saper dare le risposte richieste a stimoli standard, proprio quelli, uguali su tutto il territorio nazionale, come se i ragazzi fossero tutti uguali e i modi di apprendere gli stessi per tutti. Non ragazzi unici ma omologati e standardizzati
Quanto tempo è richiesto agli insegnanti per preparare gli alunni a questi test? Quanto tempo è tolto ad attività più propriamente formative?
Se poi i risultati di questa somministrazione servissero anche a valutare la qualità dell’insegnamento e dunque degli insegnanti, come paventa il prof Israel, l’insegnamento si svuoterebbe di senso dato che si ridurrebbe a formare batterie di alunni in grado solo di dare risposte adeguate a determinati stimoli.
Preoccupa molto che la scuola sia sempre di più orientata verso un sapere nozionistico e astratto perché la vera competenza non si misura con dei test ma la si coglie in situazione, vale a dire nell’agire complessivo e concreto dell’alunno, quando corpo, emozioni e mente sono coinvolti e collegati; questo tipo di competenza la può valutare solo l’insegnante quando è formato adeguatamente per coglierla prima in se stesso poi nell’altro.
E’ triste che coloro che stanno in alto nella gerarchia scolastica, nonostante i propositi contenuti nei programmi ministeriali di ciascun ordine, indirizzino invece la scuola a recepire solo indicazioni formali. I ragazzi invece chiedono con forza di essere guidati, nel corso della propria crescita, a conoscere se stessi attraverso un insegnamento che, nel formare abilità che servono nell’agire concreto, non trascuri l’acquisizione di capacità che li portino a scoprire il loro interiore, a capire chi sono, qual è il loro compito nella vita e come rapportarsi con se stessi e con gli altri.
La misurazione di queste competenze non potrà avvenire con uno sterile Test Invalsi ma potrà essere colta dal modo col quale i i nostri ragazzi sapranno muoversi nel mondo.
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