Se avete tempo, leggete questo commento al vangelo del primo novembre (la comunione dei santi) di Enzo Bianchi.
Enzo analizza Mt 5,1-12a, le “beatitudini”, e dice cose importanti. Mi colpisce questo passo:
Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere (corsivo mio). E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.
Condivido con Enzo la convinzione che il procedere umano apre orizzonti di libertà interiore i cui frutti si coglieranno appieno quando il processo sarà maturo ed al suo culmine.
Voglio però considerare questo:
– alla fine del cammino umano si dischiude alla comprensione il senso stesso del divenire, del vivere, dello sperimentare soffrendo e gioendo;
– la comprensione del processo del vivere cammina assieme all’ampliarsi della consapevolezza dell’unità dell’esistente, umano e divino divengono, man mano che la comprensione si amplia, aspetti di una realtà inscindibile.
Date queste premesse, che cos’è il quotidiano, la vita minuta, l’accadere che tutti sperimentiamo nella ferialità?
Fatica che promette appagamento? Sofferenza che prepara la libertà?
O sono, la fatica e la sofferenza, niente altro che il rumore dei paraocchi che cadono e si frantumano liberando la chiara visione del reale?
Non è forse il quotidiano stesso il premio (se proprio dobbiamo introdurre questa nozione così limitata) ?
Essendo il quotidiano, con le sue sfide e le sue possibilità, il palcoscenico su cui accade la rappresentazione del cadere dei veli, il tempo in cui la consapevolezza e la comprensione si ampliano e liberano allo sguardo ciò che da sempre è stato lì, allora possiamo dire che il primo e il più grande dei premi è questo liberarsi dello sguardo, questo poter vedere che accade ogni giorno, ogni ora, ad ogni fatto che si impatta con noi e che ci chiede consapevolezza e comprensione.
Ogni fatto porta senso se è vissuto come l’accadere che svela, che libera, che illumina il divenire e l’essere.
La nostra capacità di vivere ed apprezzare la liberazione quotidiana è l’autentico premio e questo sta già accadendo, il più delle volte, nella inconsapevolezza.
Alla fine del cammino umano, la persona che vive nella “comunione dei santi”, la comunione del sentire diremmo noi, non si pone più il problema del senso del vivere: ogni passo ha avuto senso, ciascuno di essi è stato liberante e ha preparato ulteriori liberazioni.
Quella persona non guarda più alla realtà del divenire, prigioniera del senso e del non senso, del giusto e dello sbagliato, del bene e del male: vede il disegno del divenire, ma il sentire acquisito la colloca nella dimensione dell’essere e, per essa, la realtà non diviene più, ma semplicemente “è“.
Questo è lo stato di unione così come è realizzabile all’umano: volendo lo possiamo chiamare anche lo stato di beatitudine derivante dall’unione con Dio, ma introduciamo una coloritura inopportuna e superflua che narra dei residui della nostra mente.