La meditazione senza scopo

Questa riflessione parte da un commento al post sulla meditazione quotidiana.
Quando si inizia a praticare la meditazione esiste sempre uno scopo, un obbiettivo. Dire che questo è nell’ordine delle cose: un bambino desidera divenire grande; un operaio fare lavori più creativi e gratificanti.
Un ricercatore dell’interiore desidera migliorare se stesso, cambiare, magari scomparire ma, comunque, desidera.
La questione del  desiderio, la presenza di un soggetto desiderante e il suo superamento, è qualcosa che si pone come obbiettivo solo molto avanti nel cammino: potremmo dire che l’ultimo degli obbiettivi è non avere più obbiettivi, più desideri.
In quella fase si vede ancora la mente che si prefigge qualcosa e non si alimenta quella attitudine ma, sistematicamente la si disconnette.
Per sua natura la mente si proietta; per comprensione acquisita il sentire non alimenta quella proiezione.
Il tempo della pratica meditativa è anche il tempo in cui questa duplicità diviene evidente: protendersi/stare.
Nella vita non è diverso: tutto parla di un conoscersi, divenire consapevoli, comprendere e, simultaneamente, di un lasciar andare, accogliere, piegarsi senza fine.
Ho detto: “per sua natura la mente si proietta”, ma è una affermazione relativa. Tutti carichiamo la mente di innumerevoli responsabilità ma, nel farlo, a volte non osiamo andare più a fondo: quella è certo la natura della mente, ma essa risente di una spinta che la precede e che la conduce nel divenire, nel non arrestarsi, nel cercare nuovi stati, nuove esperienze, nuove comprensioni.
La spinta giunge dalla coscienza e, in fondo, dalla vibrazione prima, dal programma che informa l’intero tessuto del vivere: finché siamo immersi nel divenire, in grado estremamente variabile, subiamo l’influsso alla trasformazione, al divenire appunto.
Ma di che divenire si tratta? Di quello mosso dalla brama, o di quello che, ottemperando al programma di fondo, ci induce all’ampliamento del sentire attraverso le esperienze?
Direi che in una fase matura del cammino, non si tratta di disconnettere tout court qualsiasi spinta alla trasformazione, ma di discernere la sorgente di quella spinta e di coltivare senza sosta la consapevolezza che quello che deve cambiare, cambierà, perché tutto cambia, rimanendo ben saldi nei processi del vivere senza mai considerarsi coloro che hanno finito di imparare.
La fase matura, a mio parere, non è tanto evidenziata dal non avere più spinta al cambiamento, quanto dalla fiducia incrollabile che tutto cambia, che niente in noi resiste, che la nostra disponibilità è totale nell’venir cambiati, non nel voler cambiare, dunque.
La meditazione senza scopo avviene in questo contesto di fiducia radicale: tutto cambia perché tutta la vita dell’umano è inserita nel divenire e questo è cambiamento senza fine del sentire che lo genera.
Questo cambiamento avviene senza volontà, quindi è inscritto nel non-agire, appoggiato su di un affidamento radicale alla vita: non al soggetto meditante, praticante, vivente, sperimentante, ma affidato alla vita e al suo pieno dispiegarsi senza che questo ci riguardi.
Un’ultima considerazione: una coscienza giunta all’ultima incarnazione può essere artefice di spinte molto diverse:
– può non avere/generare più stimolo, perché oramai ciò che doveva essere conseguito come comprensione lo è stato e si può scivolare via senza fatica dal ciclo delle nascite e delle morti;
– può generare spinte considerevoli a sperimentare perché molti nodi karmici vanno condotti a risoluzione e diverse comprensioni incomplete vanno definite e completate.


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