Le declinazioni dell’attenzione all’altro

Diceva ieri un’amica: “La mia generazione ha fatto del male ai figli coprendogli troppo le spalle!”
Condivido l’espressione e la sostanza. Ci sembrava di fare bene garantendogli le condizioni per l’ingresso nel mondo, e certamente abbiamo fatto bene. Quando abbiamo sbagliato, dunque? Quando abbiamo procrastinato troppo a lungo il sostegno quasi senza condizioni.
Se per troppo tempo ti appoggio, non ti stimolo all’autonomia e se, infine, non ti tolgo il sostegno, tu non sviluppi le forze interiori necessarie alla tua rappresentazione.
L’amore, ad un certo punto, deve divenire abbandono relativo: proprio perché ti voglio bene e voglio il tuo bene, da un certo punto in poi devi fare da solo e, l’eventuale mio aiuto futuro, sarà condizionato.
Direi che questa logica, questo sviluppo pedagogico è andato in frantumi molto tempo fa con la crisi del maschile e della sua funzione, e ancora non vediamo emergere una soluzione.
Ci sono mille modi di articolare questa pedagogia e, quelli sani, partono dal rispetto più profondo per il figlio (per l’altro) e la sua vita in divenire, e per se e la propria funzione di genitore.
Potremmo estendere questa logica a tante situazioni e declinare le pedagogie più adeguate nei confronti del povero, del carcerato, del disabile, dello sconfitto, del fragile, dell’arrogante, del ricco, del potente.
Niente di tutto questo, tiriamo a campare.
Ho affrontato questo tema anche nel post Il pane della vita.
Esistono persone accudenti per natura, è un dono: loro provvedono materialmente, affettivamente, con consigli, dedizione e abnegazione. Il problema di queste persone è comprendere quando debbono smettere perché la domanda vera dell’altro non è, magari, più a quel livello, non ha bisogno di quei modi e di quei riti, anzi, a volte, ha bisogno che quelle forme cessino per lasciar emergere altro di più profondo e sempre velato dall’accudimento e dall’attenzione abituali.
Esistono persone che sanno occuparsi solo di sé e l’altro lo vedono appena e a poco serve invitarli perché non sono sostenute dalle comprensioni necessarie: a questo servono le leggi e la morale di una collettività, a queste persone che da sole non ci arrivano.
Esistono poi persone scollegate dal reale e che vivono in una dimensione piuttosto aleatoria, tale da conferire loro una comprensione piuttosto vaga dei rapporti e delle necessità: quanto è importante, per queste persone, essere ricondotte ai fatti, a volte strattonate sui fatti?
Infine esistono poche persone che vivono essenzialmente nel sentire di coscienza e la loro attenzione all’altro è fondamentalmente esistenziale. Queste persone sanno che all’altro ci pensa la vita, il che significa che a volte la vita chiama me, altre te, altre qualcun altro affinché quella persona abbia il necessario al suo vivere materiale e spirituale.
Queste ultime persone, conoscendo la loro irrilevanza, assecondano il ciclo della vita e non lo forzano con la loro pretesa di sapere che cosa è bene per l’altro.
Per chiudere: esistono, ovviamente, mille commistioni tra queste disposizioni generali ed ognuno è interpellato nel quotidiano dal comparire dell’altro sulla sua scena e affronterà la situazione così come è nelle possibilità che gli derivano dalle comprensioni acquisite.


Se hai domande sulla vita, o sulla via, qui puoi porle.
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5 commenti su “Le declinazioni dell’attenzione all’altro”

  1. Mi viene da dire che siamo tutti in cammino per riconoscere l’altro e la sua unicità, con tempi diversi e con diverse funzioni nell’organismo unitario. Grazie

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  2. Non so bene e a quale categoria di persona appartengo: l’accudente, l’egoista o persona non connessa con la realtà.Forse un po’a tutte ma qui poco importa. Sentire invece che la vita provvede all’altro e a me è sempre come ricevere un caldo e lungo abbraccio. Grazie!

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