Ad un giovane senza lavoro manca di certo qualcosa, come ad una persona alla ricerca di un affetto.
C’è una parte della vita dedicata all’edificazione delle condizioni di base necessarie per realizzare il proprio cammino esistenziale.
Saggezza vorrebbe che una società fosse ordinata in modo tale da facilitare a tutti i suoi membri l’accesso alle condizioni di base per potersi avviare nella vita, ma da questo siamo ben lontani e non a caso, ma per puro e semplice egoismo di molti.
Comunque, nelle vite meno tormentate, viene un giorno in cui quelle condizioni sono realizzate e la persona ha una stabilità di fondo.
Questa stabilità non interrompe però la sua ricerca: dal soddisfacimento delle condizioni materiali, essa passa alla ricerca di nuove condizioni interiori ed anche spirituali.
Anche questo è naturale ed è un passaggio ineludibile per la gran parte di coloro che sono sorretti da un sentire che su questo orizzonte li apre.
E’ questa la via nel divenire, nell’imparare, nel cambiare: la via evolutiva come dice la “Via della Conoscenza”.
Cambiano gli obbiettivi ma rimane la ricerca: è un modo di interpretarsi più che legittimo, per alcuni obbligato, ma non è l’unico esistente.
La persona potrebbe leggersi anche come colei che vive, che partecipa della vita, che collabora ed è interna al grande pulsare della vita e che non è più mossa da una ricerca, ma da una spinta ad essere.
Questa diversa interpretazione richiede un diverso sentire e una diversa organizzazione interiore.
Si tratta di passare dal considerarsi come coloro che non possono non avere domande perché l’averle li definisce e li fa sentire vivi, a coloro che sentono scomparire le domande nel loro intimo, attraversano un deserto fatto di svuotamento e di neutralità ed infine aprono gli occhi sulla realtà del ciò che è.
Questa seconda via, questo atteggiamento e disposizione interiori, li chiamerei la via dell’essere, del contemplare: la via fondata sulla fiducia e sull’abbandono.
E’ anche la “Via della Conoscenza” di cui vado pubblicando ultimamente diversi materiali.
Da coloro che mancano di qualcosa a priori e comunque, diveniamo coloro che hanno a disposizione il necessario per conoscere, divenire consapevoli, comprendere e per vivere quello che viene senza dover cercare ancora perché hanno compreso che la vita non è una ricerca, ma è osservazione, ascolto, accoglienza, fiducia, esperienza.
Comprendete da voi che questo richiede d’aver acquisito un certo sentire e dunque non è una via universale, ma piuttosto è adatta solo ad alcuni, a quelli che sono già pronti nel sentire, o vanno acquisendo quello necessario.
C’è un equivoco che vorrei chiarire: chi non conosce quel modo di vivere, pensa e teme che esso sia la rinuncia alla propria umanità e ad una certa intensità e pregnanza di vita, che sia, insomma, una sorta di scivolamento lento e profondo nell’apatia e nel disinteresse.
Niente di più lontano dalla realtà: la vita nell’essere è lo splendore della vita umana e porta alla pienezza d’essere e d’esistere per la semplice ragione che, liberi dai filtri e dai condizionamenti dell’identità, finalmente il reale interiore e quello esteriore convergono e divengono uno, permettendo la comprensione dei processi e dei fatti; la fruizione delle emozioni e dei pensieri non più oscurati dalla paura o dal bisogno; l’esperienza piena delle relazioni liberata dalla pretesa, dall’aspettativa e dal condizionamento del passato, o dalla necessità di piegare quei rapporti a sé.
Le menti/identità temono il passaggio dalla vita nella sfera del bisogno e della ricerca, a quella nella dimensione dell’essere: se la persona è pronta nel sentire, persevererà e non le costerà particolare fatica; se non lo è, abbandonerà e coltiverà il necessario ad essa.
Non sarà stata colpa di nessuno: quello per cui siamo pronti è ineluttabile; quello che ancora non è maturo ha bisogno del suo tempo.
Ma non bisogna raccontarsi che la via contemplativa, della fine della ricerca, sia una negazione dell’umano: è il trionfo dell’umano libero dalla propria impotenza.
Questa pienezza sorge solo dopo che l’identità si è piegata al piccolo presente che bussa, ovvero dopo che ha vissuto il lutto della perdita della propria predominanza, del proprio presunto controllo sulla realtà e ha conosciuto l’impermanenza e l’irrilevanza, l’abbandono e l’imparare ad affidarsi.
(OE, ID 14.1)
Newsletter “Il Sentiero del mese” | Novità dal Sentiero contemplativo
Ricevi una notifica quando esce un nuovo post. Inserisci la tua mail:
Al solito,c’è solo da ringraziare…
Rileggo il post, letto giorni fa con troppa fretta, e ci ritrovo probabili risposte al mio passaggio. Sì, perchè la mancanza di senso, le proteste della mente che ancora vuole cercare, le emozioni che si affacciano e vogliono spazi propri in cui prevalere mi sono familiari. Accettare ciò che è, la via dell’essere, stare anche quando non ci piace, è paradossalmente la sola “azione” che mi è concessa in questo frangente.
Roberto parli ad un certo punto di una possibile scelta… Io vedo un flusso che scorre al quale puoi opporti, da cui la sofferenza, ma che ad un certo punto non puoi fare altro che riconoscere ed abbracciare quando finalmente, in ancora troppo rari frangenti, il bisogno di riconoscimento lascia il posto al vivere ciò che è.
Le argomentazioni sono chiarissime. Nel leggere mi è sorta questa riflessione: le persone che, per intenderci chiamiamo “della via” finché sono nel divenire, hanno domande, ricercano, ed acquisiscono dati. Ad un certo punto la ricerca muore e si dovrebbe cambiare visuale: non stare più in quella del divenire ma “entrare” in quella dell’essere. E’allora che la mente di fronte al vuoto di domande, alla mancanza di senso, protesta e cerca ancora sollecitazioni. La sfida, per ciascuno, è poter scoprire e accettare la via dell’essere.