La paura di perdere e del non conosciuto, la vita nel sentire

Vorrei affrontare tre argomenti:
– La paura di perdere.
– La paura di andare oltre il conosciuto.
– La sostanza dell’esistere che si manifesta in ogni singolo e semplice fatto a chi ha la capacità di coglierla.

La paura di perdere
Scrive Samuele nel commento al post La solitudine: “Infine non c’è più niente….” ma nel contempo non c’è né depressione né morte, né tristezza, né desolazione, vero? C’è comunque “altro”, l’accesso all’essere a qualcosa che basta a sé stesso, al di là di ogni perché, direzione e scopo?
“Infine non c’è più niente” significa che tutto quello che credevi tuo non lo è, non lo possiedi, non lo governi e non hai garanzia alcuna che tra un attimo sia ancora a tua disposizione.
Avete dei dubbi? Credete di possedere i vostri pensieri e la memoria, le vostre emozioni e sensazioni, le azioni compiute e il realizzato tutto?
Tutto questo lo possediamo come bene disponibile e garantito nel tempo? Tutti sapete che non è così.
Una scrollata di terremoto, un incidente d’auto, un ictus, l’Alzheimer e le nostre vite nell’arco di un niente cambiano cifra, la pretesa di controllo diviene impotenza, la presunzione di potenza incapacità, debilitazione, amputazione di aspetti più o meno vasti di ciò che chiamavamo con il nostro nome.
Ma anche quando non accade nulla di questo, man mano che il tempo passa che cosa rimane? Se guardate attentamente, non è la memoria né il sapere, né le abilità che danno senso al nostro esistere, è il compreso e questo non è in alcun modo vincolato ai beni più propriamente umani e terreni, è relativo a ciò che si è inscritto nel sentire di coscienza in virtù delle esperienze vissute: le esperienze cadono nell’oblio e non possono essere trattenute, il sentire rimane.
Ma il sentire è immateriale e non produce nessuna soggettività particolare, anzi, è ampiamente a-personale.
Non è la quantità di sapere o di possesso di beni ed esperienze che ci conferisce serenità: è il compreso che ci rende sereni, e anche felici.
Allora, possediamo cosa? Tutt’al più, abbiamo in uso, finché la vita vuole, delle capacità, delle possibilità e delle potenzialità.
Se conoscete l’aleatorietà del portatore di nome quello che dico vi sembrerà familiare: viene una stagione in cui la persona conosce l’inconsistenza, l’impermanenza e l’essere effimero di tutto ciò che la attraversa, di tutto ciò verso cui si protende, di tutto ciò che credeva costituirla.
Se in quella stagione non siete giunti, le mie parole vi sembreranno incomprensibili e così è giusto che sia.
Chi conosce l’impermanente e l’effimero che attraversa e costituisce il reale, non ha più paura di perdere.
Costui conosce la sostanza del sentire e l’illusorietà del possedere e fonda sul sentire la sua casa: le esperienze hanno valore non perchè producono quantità di sapere, ma perché generano ampiezza di sentire.
Al sentire non si può essere legati, non si può avere il senso del possederlo: è impalpabile e non si lascia piegare dal desiderio dell’identità di farsene vanto, anche se può accadere per brevi attimi.
Ci si può “gonfiare” di sentire? Di un millantato sentire, non di un sentire autentico.
Abbiamo dunque paura di perdere cosa? Le esperienze? Certo che le perdiamo, ma rimane il loro succo, le comprensioni che hanno generato.
Abbiamo paura di perdere la presa, il controllo sulla realtà? Certo che lo perdiamo, mai avendolo avuto, era pura illusione.
Abbiamo timore di perdere la gratificazione delle sensazioni, delle emozioni, delle fantasie, del gioco interiore solipsistico che tanto ci piace? Certo che lo perdiamo nel momento in cui ci apriamo al mondo e non siamo più l’ombelico di un corpo illusorio di fantasie.
Tutte le sensazioni, le emozioni, i pensieri, le fantasie, le aspirazioni hanno generato esperienze di varia natura, livello, portata e da queste sono sorte delle comprensioni.
Tutto è benedetto, tutto è stato utile ma tutto deve morire altrimenti il nostro rimanervi legati non ci permette di portare a compimento le comprensioni che che ci attendono e che ci condurranno nello spazio senza scopo e senza senso alcuno della gratuità

La paura di andare oltre il conosciuto
E’ possibile rimanere su di un terreno che non comporti rischi? No, vivere è rischiare, perdere e guadagnare, imparare e disimparare.
Perdere il conosciuto è la condizione indispensabile per aprirsi allo sconosciuto, al non sperimentato e al non compreso.
Perdere il conosciuto non è perderne la comprensione: è abbandonarne il dettaglio conservandone la sostanza, aprendosi liberi dal peso e dal retaggio di ciò che è stato, lasciandosi impattare dal nuovo e non conosciuto che viene.
La paura di perdere ci rende conservatori e diffidenti rispetto al nuovo che bussa: ci confonde lo sguardo e ci rende ottusi.
La pura di perdere umilia la virtù dell’osare e chi non osa non si allunga, non si apre sul non conosciuto e, non facendolo, riduce le proprie possibilità di imparare e dunque di comprendere.
Nulla è mai conosciuto per sempre: ciò che ci sembra conosciuto non è che l’immagine che ci siamo creati del poco che abbiamo sperimentato: quanti sono i livelli di sperimentazione e di comprensione di un fatto? Innumerevoli, forse infiniti.
Rimaniamo attaccati dunque ad una immagine che si siamo costruiti di un fatto e crediamo di conoscerlo: pura e completa illusione.
Così costruiamo la nostra piccola prigione fatta di certezze e di conoscenze parziali e dunque fasulle: costruiamo un piccolo mondo su misura per la nostra piccola mente e per la nostra piccola visione di noi e del mondo.
Non possiamo conoscere il nuovo portandoci dietro tutto il vecchio, qualcosa bisogna lasciar andare: il vecchio che ci portiamo appresso è lo sguardo con cui vediamo il nuovo: ma non possiamo vedere il non conosciuto con gli occhi vecchi! Continuiamo a vedere varianti del vecchio!
Il non conosciuto ha bisogno che ci si liberi dal paradigma passato, il secchio deve essere il più possibile vuoto.

La sostanza dell’esistere che si manifesta in ogni singolo e semplice fatto a chi ha la capacità di coglierla
Chi ha fatto i conti con la paura del perdere ed ha visto il timore di andare verso il non conosciuto relativizzando il conosciuto che lo definisce e lo sostanzia, può aprirsi alla realtà, può lasciare che essa giunga a lui, può essere permeabile ai fatti che vengono e lo attraversando con sensazioni, emozioni, pensieri, comprensioni prima di scomparire.
Chi ha visto la paura e ha imparato a gestirla e a non lasciarsi condizionare, può cominciare a vivere.
Vivere: il flusso dei fatti che attraversa un centro di percezione, di sensibilità e di coscienza.
Non ho detto che vivere è l’uso che un soggetto fa dei fatti: ho detto che è il lasciare che tutto scorra essendo canale neutro di quello scorrere.
Questa è la vita ultima e unitaria. Cosa questa vita porti con sé l’ho già detto troppe volte, qui ribadisco che la pienezza, il senso, l’armonia e l’amore si manifestano solo ed esclusivamente quando non c’è più un soggetto che li cerca, quando non c’è più un soggetto, tout court.
La paura del perdere e del non conosciuto sono l’impasto che ci tiene attaccati all’immagine di noi: senza quelle due paure, la vita ci attraversa come un torrente e, se abbiamo le comprensioni adeguate, sentiamo solo il rumore del torrente, non il nostro.
Il singolo fatto svela al sentire la sua natura, non alla  mente, non all’emozione, né all’identità nel suo complesso: il singolo fatto è indagabile e conoscibile solo al sentire.
Il sentire fiorisce e si dischiude pienamente quando non c’è mente/identità, identificazione, paura: nel sentire la vita pulsa e canta la sua natura in modi mai sperimentati prima; se il sentire è oscurato, negato, fuggito, temuto c’è la parodia della vita e la persona non sa cosa sia il vivere. OE, ID17.2


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Roberta I.

Grazie per queste parole, la chiarezza, la dedizione. E’ amore che si manifesta per illuminare il cammino.

nadia

Grazie.

NATASCIA BELACCHI

Mi pare che tutta l’esperienza fatta fino ad oggi, sia stata propedeutica a ché mi piegassi a questo paradigma. Non credo di aver compreso pienamente e fino in fondo quanto sia necessario svuotarsi per potersi riempire di nuova acqua. L’identità reclama il suo spazio, i bisogni, le emozioni emergono ed è un continuo lavoro per cercare un equilibrio tra l’essere ed il divenire, dove ancora il divenire è preponderante. Intimamente c’è una profonda fiducia, tenuta in ombra a volte, dal raglio dell’asino.

Sandra

Parole a tratti lontane dalla mente ma assolutamente vicine al sentire…

Catia Belacchi

Nel mio procedere, il soggetto non è ancora scomparso, pertanto alcune esperienze che narri mi sono precluse, ma sento una adesione profonda al tuo argomentare, una sintonia che mi spinge a dire che quello che dici è ciò che in effetti accadrà.

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