Dice Nicoletta commentando il post La gratitudine per ogni fatto ed ogni situazione: Quando si capisce di perdere l’identificazione? Cosa si prova esattamente? Quali pensieri e sensazioni attraversano la persona quando è in atto questo processo?
Definiamo innanzitutto cos’è l’identificazione: l’auto-attribuzione di quanto accade. Quel fatto, quel pensiero, quell’emozione che stanno accadendo sono miei e sono sostanza del mio essere persona: senza di essi non sarei più io e questa vita non sarebbe più mia.
L’identificazione è figlia dell’identità e la genera senza sosta.
È evidente che in determinate stagioni della nostra esistenza l’identificazione sia necessaria: ogni sviluppo ulteriore è fondato sulla possibilità basica di dire io, di sentirsi esistente, differenziato dall’altro, capace di muoversi in autonomia.
È altrettanto evidente che, quando la persona si inoltra in una via interiore, sono in essa maturate le condizioni per andare oltre sé e per superare dunque gli automatismi identificativi.
La via interiore è l’apertura su livelli molto più profondi e molto meno personali e, se non si è pronti per la disidentificazione, è meglio evitarla.
Il processo della disidentificazione è fondato:
– sulla consapevolezza dell’identificazione;
– sul dubbio in merito a quanto la mente-identità afferma di quella scena, di quel pensiero, di quell’emozione;
– sulla comprensione che ciò che la mente dice è relativo e, spesso, non reale perché si intuisce che molto d’altro esiste oltre il recitato mentale;
– sulla sofferenza che si patisce in virtù della identificazione stessa;
– sulla necessità di cambiare i modi di reagire alle situazioni e dunque sull’urgenza di un nuovo approccio esistenziale al proprio interiore e alle relazioni del quotidiano;
– sulla pratica della disconnessione.
Cos’è la disconnessione?
Lo spostamento della consapevolezza da un dato ad un altro dato del reale che affluisce ai sensi.
Dall’essere immersi nel dato A, si passa alla consapevolezza del dato B; in una fase più esperta ed avanzata, semplicemente si lascia cadere il dato A senza necessità di approdo su altro e ulteriore dato.
La disconnessione è possibile e consigliabile quando:
– dai fatti del presente si è già estratto l’insegnamento che portano;
– si ha consapevolezza del presente;
– si è stanchi di sé e di determinate reazioni;
– si è motivati a conoscere altro.
Avendo visto per mille volte quella modalità, avendone tratta la lezione, diciamo basta, disconnettiamo, storniamo l’attenzione, la consapevolezza da quel fatto e torniamo a zero, ad una sensazione, ad esempio.
La consapevolezza che era invasa da quel fatto, ora è compenetrata da quella sensazione su cui abbiamo appoggiato l’attenzione: quel fatto in un attimo scompare e un nuovo mondo si apre all’esperienza.
Naturalmente, non tutte le disconnessioni sono così semplici: a volte siamo così radicati in certe abitudini mentali ed identitarie, che abbandonare un oggetto col quale siamo identificati è un’avventura e richiede forza di volontà e determinazione molto forti.
Disconnettere vuol dire rinunciare ad aspetti di sé, al conosciuto, a ciò che, attraverso l’abitudine, ci conferma e rassicura: è necessaria una frattura nell’intimo della lettura di sé per poter disconnettere, è necessaria una relativa morte-di-sé.
Ogni volta che si disconnette si perde un tassello della immagine che abbiamo costruito di noi, si apre uno spazio nell’armatura/immagine nostra, quella a cui aderiamo, quella che ci raccontiamo essere noi.
Disconnettere è perdere:
-il controllo sul conosciuto e il desiderio di rimanere nel suo recinto;
– la rassicurazione che deriva dal conoscere e prevedere l’ambiente interiore e i suoi sviluppi.
Disconnettere è aprirsi:
– ad una esperienza sensoriale nuova;
– ad una esperienza esistenziale altra.
Abbiamo visto che il modo più semplice di disconnettere un dato meccanismo mentale o identitario è spostare la consapevolezza su una informazione sensoriale, ad esempio sul proprio respiro: lì si apre un mondo piccolo, sottile, composto di innumerevoli sensazioni ed esperienze mai conosciute abbastanza e, si sperimenterà col tempo, mai esauribili.
La consapevolezza della sensazione non è fine a se stessa: nascendo dalla disconnessione di un contenuto mentale, apre su di un vuoto, uno spazio, un non sé che si riempie innanzitutto del dato sensoriale ma, più in profondità, permette l’affluire di qualcosa di impalpabile e di indefinito che definiamo sentire.
Là dove c’era affollamento di mente e di disordine, si crea uno spazio e affluisce il sentire: col tempo e l’esperienza sapremo riconoscere senza difficoltà la qualità e la pregnanza di quel sentire ed esso non sarà più indefinito ed impalpabile, sarà realtà certa ed evidente: l’esperienza del sentire crea subitaneamente una saturazione di senso, una condizione di libertà e di leggerezza, un senso di quiete e di accettazione piena del reale.
Il sentire porta con sé il silenzio dell’identità: ora finalmente tacciono la mente e l’identità e la scena è occupata da quel che è. OE10.5
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È bellissima la metafora di Paolo.
Anche se faccio ancora molta difficoltà nell’usare bene questi termini guarda caso la vita proprio in questi giorni mi ha potato sulla riva a guardare….fa scaturire una grande serenità….ma non è ancora così rapido e frequente arrivarci!
Grazie dei contributi di ognuno! e’ un argomento che mi sembra molto importante, soprattutto per coloro che, come me, iniziano da poco a provare…
Con la disconnessione avviene la perdita di senso ed una piena e amorevole accettazione di quel che c è…
Quando disconnetto, in primo piano emerge in particolare il respiro, poi anche i diversi stimoli sensoriali, ma sullo sfondo è come se rimanesse l’ombra di ciò che non accetto di me e che in passato (e a volte ancora adesso) mi avrebbe indotto a lunghi monologhi interiori, alimentati dall’illusione di poter annullare un determinato fatto vissuto con disagio perché collegato a parti di me che non ero disposto ad accettare. Mi sembra che il peso di quest’ombra sia più facile da sostenere, perché è come se almeno in parte non mi appartenesse. Non monopolizza l’attenzione perché condivide lo spazio interiore con il respiro e con gli altri stimoli. Certo, ci sono delle cose ancora da lavorare, e l’ombra me lo ricorda, ma la distanza che si viene a creare la rende più sopportabile.
È la strada giusta Marco, vedrai che col tempo e l’esperienza quel che rimane in sottofondo come conflitto, diviene sempre più flebile fino a scomparire.
Post molto chiaro! Per me la disconnessione non è ancora una stagione e vedo tutti i miei limiti e la volontà che mi necessita nel praticarla ma quando si è sperimentato il senso di quiete che ne consegue, il proseguire nel coltivarla è sempre più facile. Grazie!
La disconnessione è possibile solo a partire da un certa stagione della propria vita, quando determinate comprensioni sono maturate. Solo quando in un certo qual modo seppur confuso ed inconscio si ha la possibilità di disconnettere allora si è anche disposti a perdere qualcosa di se stessi. Accade però che questa fase non si sostituisca del tutto all’altra. In mezzo alla stagione della disconnessione (mi) accade che alcuni tratti identitari riemergano. Si apre allora uno scontro tra la disconnessione e l’identificazione.
Inevitabilmente permangono tracce di sé e tracce di identificazione anche nella disconnessione soprattutto quando non è un evento, magari intenso, ma una stagione: siamo umani e dunque con un limite.
Con l’identificazione sei nel vortice della corrente, con la disconnessione a riva che la osservi