Con il termine meditazione definiamo quella disposizione interiore alla consapevolezza, alla presenza, alla disconnessione ripetuta di ogni identificazione.
La pratica meditativa non è dunque, dal nostro punto di vista, un’esperienza più o meno lunga da coltivare in un tempo dato, ma una disposizione che si innerva nell’ordinario della vita e che illumina ogni fatto di consapevolezza e presenza e, affinché questo possa accadere, disconnette ogni contenuto mentale ed emozionale non necessario.
Certo, questa disposizione meditativa può, e quasi sempre deve, essere preparata da una stagione di pratica specifica in cui la persona si riserva un tempo quotidiano da dedicare ad essa: quando quella modalità di stare/abbandonare nel presente è interiorizzata, quando è divenuta automatismo, allora sorge la disposizione meditativa che può anche non aver più necessità di un tempo specifico di pratica.
Qui noi parliamo a coloro che desiderano vivere nella consapevolezza e nella presenza, ma ancora non hanno chiari i passaggi necessari per giungervi: essi non potranno procedere se non creando una ecologia quotidiana che li porti a fermarsi, ad ascoltare e ad osservare liberando il loro interiore delle identificazioni che senza fine si presentano.
Quella ecologia quotidiana, con il tempo, stabilirà una attitudine, una disposizione di fondo di tutto l’essere che, di fronte ai fatti della vita, sarà capace di reagire subitaneamente in virtù dell’addestramento conseguito nel tempo.
Con il termine contemplazione intendiamo una evoluzione radicale dell’esperienza meditativa; la consapevolezza e la presenza rappresentano la condizione di fondo su cui sorge l’esperienza contemplativa che realizza una rivoluzione nello sguardo: non più “io sono consapevole”, ma “c’è consapevolezza”.
Nella contemplazione il soggetto scompare e si afferma l’esistente, il fatto, il semplice fluire dei fatti.
L’osservatore, presente nella esperienza meditativa, lascia il campo all’esperienza unitaria dell’essere dove il fatto, e il centro sensoriale che lo percepisce, non sono più separati ma, entrambi, sono semplicemente quel-che-sono.
Il sorgere della realtà del quel-che-è, realizza l’esperienza unitaria d’essere.
Nell’ordinario dei giorni, la disposizione meditativa sfocia in quella contemplativa e questa ripiega in quella meditativa: questo accade senza fine nella persona che alla vita interiore prevalentemente si dedica.
Nella persona che ha una vita intessuta di impegni e di doveri, questa dinamica che forma può assumere? So che questa è la vostra domanda e che, a volte, essa si porta dietro uno scetticismo, quasi quello sopra descritto fosse esclusiva di pochi.
Non è così, questo livello del vivere e dello sperimentare l’esistenza è accessibile a chiunque sia pronto nel sentire: questa è l’unica condizione.
Le menti/identità partono troppo spesso dal presupposto che a loro non sia possibile, ma qui esse incorrono in un grave errore, in un limite di visione, in un impedimento che sorge non dal reale, ma da una credenza, da un pregiudizio che ha senso nelle persone che effettivamente non sono pronte nel sentire, ma è ingiustificato in coloro che a quel sentire hanno accesso.
Accade dunque che anche in persone disposte nel sentire, non si dispieghi pienamente l’attitudine meditativa e contemplativa e questo solamente perché esse non hanno trovato gli strumenti adatti, i canali funzionali a quella espressione e a quella interpretazione di sé.
In queste persone, solitamente è l’elemento artistico-creativo che permette una espressione inconsapevole di quel sentire e l’accesso a quelle esperienze: conoscendo i termini della questione, esse potrebbero risiedere più diffusamente e più stabilmente in quella dimensione.
È questo uno dei casi in cui si dimostra chiaramente come l’identità sia più arretrata del sentire, e testimonia la necessità della diffusione di una cultura spirituale, e di un linguaggio accessibile ai laici e ai non religiosi, che possa fornire alle menti strumenti che ne facilitino la formazione e l’ampliamento di visione.
La persona che vive nel mondo, che è immersa nei suoi ritmi, e che nel suo intimo è pronta per altro, come può disporsi?
Coltivando l’ascolto, l’osservazione, il silenzio interiore di sé.
Essendo presente ai fatti, consapevole del loro fluire, attenta ai simboli, disposta a lasciarsi impattare e, l’attimo dopo, a lasciar andare.
È possibile questo mentre si lavora, mentre si è in famiglia? Certamente.
Per ascoltare, osservare, tacere, esporsi, lasciar andare esiste una sola condizione: possedere un basso livello di identificazione.
Non è, in genere, il mondo l’ostacolo, ma l’identificazione col mondo che noi sviluppiamo.
Ciò che ci aliena non è il mondo per quanto assurdo esso possa essere, è il nostro lasciarci scaraventare a terra dagli eventi, dunque il nostro appropriarci dei fatti e ridurli nel confine asfittico dei nostri bisogni e desideri, dinamiche di vitale importanza per la sopravvivenza della nostra identità, ma letali se desideriamo vivere in modo più vasto nella ordinarietà dei giorni.
Il mondo è faticoso e ci destabilizza perché noi, in esso, giochiamo la partita drammatica del nostro esserci, del dimostrare, dell’essere confermati, del conquistarci il diritto ad esserci.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e sono il frutto di una concezione distorta del vivere: il mattino, quando ci alziamo, non ci prepariamo alla lotta; il giorno non è il tempo della sopravvivenza, ma quello dell’apprendimento; la sera non è il ritorno del guerriero, è il ricapitolare in sé ciò che si è appreso.
Le persone che hanno in sé un sentire adeguato, possono estrarsi da questo mattatoio attraverso la disposizione meditativa coltivata senza fine in ogni attimo del loro giorno: ascolto, osservazione, silenzio di sé, lasciar fluire, imporsi quando è tempo, fare un passo indietro quando necessita.
Da questa disposizione di fondo coltivata senza fine, sorgerà il frutto della vita vera, la contemplazione.
Allora la vita scorrerà con la stessa naturalezza di un fiume nel suo alveo, essendo la vita e colui che la vive, il fiume e il suo alveo, una unità che non conosce frattura.
È possibile la contemplazione nella ferialità dei giorni? Certamente.
È necessario che coloro che hanno conseguito un sentire adeguato, facciano un upgrade delle loro menti e delle interpretazioni di sé lasciando entrare aria nuova, nuove visioni e nuove interpretazioni dei fatti e della relazione ordinaria e feriale con essi.
La persona che vive nel mondo e che da esso si fa fagocitare, qualsiasi sia il sentire conseguito, non andrà da nessuna parte se non azzera il paradigma della vittima al quale aderisce: vittima del mondo, del destino, degli errori, dei limiti.
Questo è il primo e fondamentale cambiamento di visione che deve accadere; impostato questo, la disposizione meditativa e contemplativa inizia a crescere sul terreno adeguato.
Senza questo, sentiremo ancora e in “eterno” il lamento delle menti e quell’insano delegare ad altri il cambiamento delle nostre vite, o quel semplice rinunciarvi che, a quel punto, ci dovrebbe far perdere ogni diritto al lamento stesso dal momento che, potendo, non abbiamo osato.
Superato il lamento, il secondo passo è smettere di considerare il proprio personale limite un problema: il limite proprio di ogni creatura è la sua dichiarazione di specificità, occorre imparare a guardare ad ogni essere per quel che è, non per quel che potrebbe essere.
Senza sentirsi vittime, senza lasciarsi paralizzare dal proprio limite, si aprono spazi immensi: si vive, si agisce, si osa, si accoglie, si ascolta, si tace, si osserva meravigliati il fluire dell’essere proprio e di quello altrui in ogni attimo del tempo che ci è dato vivere.
Il mondo è folle perché la nostra identificazione con i nostri bisogni, desideri, paure lo rende tale: gestita l’identificazione, il mondo diviene un luogo come un altro per vivere nella disposizione meditativa e contemplativa, o per vivere e basta.
Come sempre il problema è in noi, non fuori di noi: mai dimentichiamo che il “fuori di noi” altro non è che una proiezione del “noi”.
Chi non ha esperienza pensa che la condizione meditativa e contemplativa siano associate ad uno stato di calma, di rilassamento, di equanimità così come scodellato in tutti i tempi dalla mitologia del mite illuminato.
Così non è: lo stato meditativo e contemplativo può convivere con stati di eccitazione nei corpi, con la velocità ed anche con la tensione.
Il sistema può essere teso perché gli viene richiesto molto in quel momento, ma nulla viene perduto in termini sostanziali della consapevolezza, della presenza, del fluire gratuito dei fatti.
Tutto dipende da quanto la persona accoglie quello stato di tensione, da quanto non vi è identificata ed è capace di rubricarla alla voce “reazione meccanica dei corpi”.
Se la persona ha un’immagine del meditante e del contemplante aulica, non si riconosce e cerca di essere diversa: se invece rimane attenta ai fatti, vedrà che oltre la tensione superficiale c’è quel mondo vasto che mai è venuto meno.
L’atteggiamento meditativo e contemplativo è inscritto nel sentire ed è parte di un’identità evoluta: non viene meno, né viene travolto.
È sempre lì, a volte coperto da dei veli, ma è sempre lì.
Come sempre è una questione di interpretazione, e questa è fortemente condizionata dalla nostra cultura e dunque da ciò che chi ci ha preceduti ha trasmesso della sua esperienza. Limitata è la prospettiva fornita dalle religioni, asfittica quella trasmessa dalla cultura laica incapace di interpretare diversamente, e in chiave contemplativa, molte esperienze, prima tra tutte quella artistica.
La disposizione meditativa e contemplativa diviene col tempo, e con l’evoluzione del sentire, uno stato che attraversa e fonda ogni manifestazione, e veramente poco ha a che fare con i flussi e le perturbazioni che attraversano l’identità.
Se comprendete questo, smettete di farvi del male cercando di essere quello che non siete, e coltivate quella disposizione di fondo aldilà di tutte le vostre caratteristiche caratteriali e temperamentali.
Il meditante e il contemplante non sono necessariamente dei miti, e la meditazione e la contemplazione solo in parte risentono del velo identitario: esse sono la nota che vibra nel profondo e che tutto attraversa, lasciando che la superficie della rappresentazione obbedisca alle leggi e ai processi che le sono proprie.
Ogni persona è quello che è, e quello è chiamata ad essere fino in fondo: la via spirituale non è un abito da indossare per camuffarsi, è ciò che pone in risalto quello che siamo e lo libera dal senso di colpa e di inadeguatezza, facendolo splendere oltre ogni concezione di limite/non limite.
Lucidità. Questo post è pietra miliare. Da assumere al mattino appena svegli e alla sera prima di dormire.
Grazie.
Molto chiaro, grazie.
“Ogni persona è quello che è, e quello è chiamata ad essere fino in fondo” …identificazione….vittimismo….ancora e ancora sono trappole difficili da identificare prima di caderci e da cui difficilmente e raramente mi tiro fuori. Mi vedo imbrigliata ma senza trovare la forza di volontà o la chiave per uscirne. L’attitudine meditativa latita….è un cane che si morde la coda! Il fatto però di essere qui a parlarne mi stimola e mi parla di giusta direzione….solo….perseverare!
“la via spirituale non è un abito da indossare per camuffarsi, è ciò che pone in risalto quello che siamo e lo libera dalsenso di colpa e di inadeguatezza, facendolo splendere oltre ogni concezione di limite/non limite.” Sottolineo la conclusione in quanto ottima definizione del cammino di unificazione interiore
Ammutolito ringrazio
Veramente chiara l’esposizione. Grazie per averci fatto capire che meditazione e contemplazione possono esserci anche quando c’è una “reazione meccanica dei corpi”, basta non entrare nel circuito dell’identificazione.
Grazie. Rileggero’ con attenzione
Quando ho smesso di vedermi vittima ed ho compreso che il senso delle cose è molto più vasto, mi si sono aperti orizzonti sconfinati. Tornare indietro è impossibile. Grazie.
Molto chiaro . Grazie
Grazie.
Grazie, leggerò con calma…!
Grazie
“Accade dunque che anche in persone disposte nel sentire, non si dispieghi pienamente l’attitudine meditativa e contemplativa e questo solamente perché esse non hanno trovato gli strumenti adatti, i canali funzionali a quella espressione e a quella interpretazione di sé.
In queste persone, solitamente è l’elemento artistico-creativo che permette una espressione inconsapevole di quel sentire e l’accesso a quelle esperienze: conoscendo i termini della questione, esse potrebbero risiedere più diffusamente e più stabilmente in quella dimensione.
È questo uno dei casi in cui si dimostra chiaramente come l’identità sia più arretrata del sentire, e testimonia la necessità della diffusione di una cultura spirituale, e di un linguaggio accessibile ai laici e ai non religiosi, che possa fornire alle menti strumenti che ne facilitino la formazione e l’ampliamento di visione. ne facilitino la formazione e l’ampliamento di visione.”
Mi interesserebbe molto approfondire questo aspetto….
Grazie comunque per avere fatto ancora una volta chiarezza sui termini…comprendere profondamente il significato di certe parole ci permette di definire maggiormente il nostro orizzonte.