La cucina scuola della via e della vita

Il titolo di questo post parafrasa un vecchio ed importante libro, non ha l’ambizione di quello, ma vuole focalizzare un solo tema: la responsabilità di chi cucina, di chi esercita l’ospitalità.
Se decido di invitare a cena una persona, cercherò di creare l’ambiente vibratorio adatto a quella persona:
– come posso metterla a suo agio con gli argomenti che propongo?
– quali gesti, situazioni ed argomenti debbo evitare per non metterla in difficoltà?
– come posso alimentare una relazione che sia fruttuosa per entrambi?
– dal momento che si tratta di una cena, quali sono i cibi che porterò in tavola rispettando i suoi e i miei bisogni alimentari e d’esperienza legati al gusto e agli altri sensi, nonché alla cultura del cibo?
Come vedete, il piccolo evento di una cena comporta una serie di discernimenti che, in genere, attuiamo d’istinto, non rendendoci conto che molto spesso, così operando, altro non facciamo che alimentare dei meccanismi nostri piuttosto stereotipati e condizionati dalla nostra cultura, dall’educazione ricevuta, magari anche dalle cattive abitudine acquisite.
Ecco allora, a volte, l’interminabile chiacchiericcio sul niente infarcito di carinerie e banalità.
Ma non è di questo che voglio parlare, mi interessa qui trattare principalmente la disposizione interiore di chi cucina.

Per chi cucina il cuoco? Per una coscienza in apprendimento. Non per una persona soltanto, per una coscienza che sta apprendendo e alla quale il cuoco può fornire stimoli e opportunità di conoscenza, consapevolezza, comprensione.
Se l’ospite è diabetico. il cuoco si regolerà di conseguenza; se è vegetariano, o vegano, partirà da quella base per elaborare i suoi piatti.
Se l’ospite ha una difficile relazione col cibo, nulla sulla tavola sarà ostentato e tutto sarà proposto in piccole e discrete quantità e al centro ci sarà l’importanza della relazione piuttosto che quella del cibarsi.
Se l’ospite è vorace, il cuoco preparerà piatti abbondanti stando ben attendo a non eccedere, mettendo così l’ospite nella condizione di trovare il suo limite senza trasformare quel momento in una abbuffata.

Il cuoco guarda dunque non alla sua idea di cibo e di cibarsi, ma alla relazione che vuole costruire con l’altro e alla sua capacità di prendersi cura di quella parte del cammino esistenziale altrui che ha a che fare con il nutrirsi.
Con l’ospite che non ha problemi con il suo corpo, perché capace da mantenerlo in equilibrio grazie ad una lucida consapevolezza, il cuoco potrà liberare la propria creatività e proporre diversi piatti di diversa sostanza contando sul discernimento acclarato dell’ospite.
Con l’ospite che ha un problema consapevole con il corpo, il cuoco sarà prudente e asseconderà la prudenza e i timori dell’ospite, non provocandolo, non mettendolo a disagio proponendogli cibi che per l’altro custodiscono un problema.
Con l’ospite che, ad esempio, tende al sovrappeso ma non ne è consapevole, il cuoco saprà non proporre quei piatti che possono appesantire senza nutrire oltre il necessario: non offrirà mai un dolce, o un gelato alla fine di un buon pranzo.
Con l’ospite che tende al deperimento, senza esserne consapevole, il cuoco userà varietà, colore, creatività per creare la fascinazione necessaria affinché l’altro sia invogliato a mangiare e i cibi che proporrà avranno un accentuato potere nutritivo.

Il cuoco molto spesso non è capace di queste sensibilità e discernimenti e si limita a scodellare al suo ospite quello che i suoi bisogni e la sua cultura  gli suggeriscono: il nutrire l’altro da gesto materno diviene automatismo di una infinita riproposizione egoica.
La madre che nutre non è colei che ti affoga nel cibo, è colei che ti fornisce il nutrimento adatto a te.
Il cuoco prepara e dispone un mondo, un ambiente vibratorio composto innanzitutto dalla propria atmosfera vibratoria: il cuoco capace di rispetto e di amore è quello che aggiunge e toglie a seconda delle stagioni d’esistenza del suo ospite.
Il cuoco che a tutte le occasioni ingozza il suo ospite, mostra soltanto di non essere capace di amore e di ospitalità, perché non vede il suo ospite e non è capace di discernere il suo cammino esistenziale di cui il cibo e il nutrirsi sono parte: vede la propria cultura e formazione e ogni domenica ti prepara le millefoglie, il pollo e le patate arrosto, il dolce, l’amaro e il caffè.
Dell’ospitalità di quel cuoco dovremmo poter fare a meno perché è fondamentalmente condizionata da egocentrismo ed egoismo: non vede l’altro, vede la propria idea di ospitalità ed è prigioniero dello stereotipo della propria visione e dei propri bisogni.
L’altro non è qualcuno da amare servendolo, e dunque tirandosi da parte per fargli spazio: è colui a cui dare noi stessi per intero, senza discernimento.
Così non c’è incontro e non c’è relazione: il primo passo per la relazione autentica, è un nostro passo indietro, un passo indietro di entrambi, con l’invito all’altro a fare il primo passo avanti.

Naturalmente il cuoco, quello avveduto, non può avere la certezza di quello che abbisogna al suo ospite, ma se è mosso da autentica cura e capacità di amare e servire, osserverà i molti segni e simboli che giungono dalla vita dell’altro, investigherà con delicatezza e, se l’ospite è amico fraterno, sarà sicuramente capace di discernere e di compiere le scelte più opportune anche in merito al cibo da servire.
Ora, intendiamoci: se tu sei ospite mio, sai che io non ti preparerò, per farti piacere, i piatti che a te piacciono, dal momento che per quelli puoi andare al ristorante.
Se sei ospite mio, entri con il tuo mondo nel mio mondo, quindi i piatti che ti offrirò saranno quelli che parlano del mio mondo al tuo mondo, avendo estrema cura non di volerti soddisfare, ma di poterti incontrare attraverso il gesto del mangiare assieme.
I piatti sono il segno dell’incontro tra esistenze, la celebrazione di esso: non sono elementi di seduzione, il mio modo per piacerti seducendoti la gola; il mio modo di essere accettato e apprezzato soddisfacendo certe tue brame e magari insistendo su quelle, pratica che alla fine metterà a disagio entrambi perché non di una celebrazione si sarà trattato ma di una meschina transazione commerciale.


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nadia

Un mare di ricordi in queste parole: la mia famiglia ha avuto un ristorante per più di quarant’anni ed io sono cresciuta lì, in quella immensa officina!
Riconosco la cura con cui mamma preparava piatti, già allora attenta alla stagionalità e alla provenienza dei prodotti; la dedizione di mio padre nell’accogliere e mettere a proprio agio i clienti…ovvio che essendo una professione c ‘era in questo un ritorno economico e aggiungerei una forte componente identitaria . Si era comunque creato un ambiente in cui forte era la dedizione, la cura e direi anche l’amore per l’altro…

Catia Belacchi

Quando l’incontro col cibo avviene per stare insieme, bastano veramente pochi alimenti per soddisfare questa esigenza.

Alberto C.

“Se sei ospite mio, entri con il tuo mondo nel mio mondo, quindi i piatti che ti offrirò saranno quelli che parlano del mio mondo al tuo mondo, avendo estrema cura non di volerti soddisfare, ma di poterti incontrare attraverso il gesto del mangiare assieme”. Bellissimo esempio che la dice lunga sulle dinamiche che a volte non vediamo.

Roberto D.

Questo post mi tocca particolarmente . Come persona che si trova , insieme alla mia compagna , a fronteggiare spesso situazioni in cui i commensali sono vegani , o vegetariani , o non amano il pesce o non amano le verdure . Spesso questi commensali possono trovarsi contemporaneamente in una stessa cena e l’attenzione da dedicare al cibo e alle diverse combinazioni di alimenti richiede impegno dedizione e attenzione . La cucina diventa ancor più pratica meditativa perché oltre all’attenzione posta nella preparazione , il contatto con l’alimento , la sua scelta , l’attenzione va posta anche in relazione con il suo fruitore . Non faccio da mangiare per me , ma preparo per l’altro e la soddisfazione dell’altro è ancora una volta la misura del mio impegno consapevole a preparare. Mi riguarda poi come figlio . Il lunedì mi fermo spesso da mia madre a pranzo e nonostante le mie raccomandazioni legate sia alla necessità di rimanere “ leggero “ per il lavoro che dopo poco dovrò svolgere , per il mio desiderio anche di ridurre la quantità di carboidrati , ogni santissima volta mi trovo di fronte a pranzi natalizi . Questo è un limite legato al suo desiderio di fare bella figura . Con gli amici , con i figli , con i parenti il cibo avanza per giorni e alla fine finisce per essere buttato . Quindi esattamene un gesto paradossalmente egoistico . Il finale dei nostri pranzi spesso diventa una serie di insulti da parte mia ( e quindi tocca anche miei limiti , perché in qualche modo pretendo rispetto e lo faccio nella maniera meno costruttiva per entrambi ) e lamentele da parte sua sulla inutilità dei suoi sforzi ( non richiesti ! ) nel preparare tante cose buone da mangiare per suo figlio . Risultato ? Lei diventa la vittima e io mi carico pure di un discreto tasso di sensi di colpa che per fortuna metto immediatamente a tacere grazie al cammino fatto .

Samuele Deias

Molto interessante.
Esiste anche l’esperienza del sentirsi a casa, sentirsi accolti dai profumi della cucina e dal suo allestimento. Mia madre passava molto tramite questa modalità. Le sue carezze erano mediate molto e costituite dalla cucina, dai panni stirati.
Quanto mi manca entrare in casa e sentire il profumo del coniglio con le patate per dirne una. Lei che aveva dedicato il suo tempo e le sue cure per noi.
Primitivi per certi aspetti ma probabilmente adatti a quella stagione di vita.

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