È opinione comune che la confidenza reciproca, la capacità di condividere i propri vissuti con qualcuno di cui ci fidiamo, contribuisca a creare relazione autentica, amicizia vera e senso di fraternità.
È una opinione certamente condivisibile, descrive una parte di un processo abbastanza complesso.
Diciamo che è una pre-condizione: senza quella capacità di creare ponti, di avvicinarsi reciprocamente, è difficile pensare che possa sorgere relazione, e quindi amicizia autentica.
Quella confidenza di base appoggia su di una decisione che la persona prende: quella di abbassare le sue difese, di non temere l’altro, il suo giudizio, o la perdita della sua approvazione.
La persona sceglie di non ascoltare alcune sue paure (contenute nella sua identità conscia e inconscia) e, abbandonandosi ad una fiducia di fondo, permette l’avviarsi del processo.
Quello che poi segue è il naturale manifestarsi di ciò che è sempre presente quando il filtro dell’identità si attenua o scompare: si genera empatia, vicinanza, fratellanza, compassione.
Queste condizioni si generano o vengono liberate?
Affermare che si generano significa ammettere che prima non c’erano, non esistevano.
Dire che vengono liberate significa essere consapevoli che quelle condizioni già esistevano e, semplicemente, essendo state rimosse le cause che le ottundevano, ora possono liberamente fluire.
L’avvicinarsi confidente e reciproco, libera dunque una condizione naturale nell’umano per il semplice fatto che esso non è più soggetto alle sue paure, reticenze e resistenze.
Premesso questo, vorrei ora analizzare come l’esperienza della amicizia-vicinanza-compassione si configura in un sentire evoluto che ha maturato in sé l’esperienza dell’essere-straniero.
L’essere-straniero è una condizione precisa derivante dal sentire: la nostra partecipazione al mondo, alle convenzioni, ai riti si attenua fino a divenire lontananza e senso di estraneità (“stranieri a quei modi”): sostanziale neutralità.
Questo processo è la conseguenza di un progressivo estrarsi dagli archetipi transitori, e dell’altrettanta progressiva affermazione di archetipi sempre più evoluti e vicini alla dimensione degli archetipi permanenti, primo tra tutti quello dell’amore universale.
La persona che si affranca dall’archetipo transitorio della famiglia, ne condivide sempre meno l’attrazione e i riti, e sempre di più è portata a sentire i suoi familiari sul piano esistenziale, piuttosto che su quello parentale.
Gli amici divengono non i complici, ma i fratelli nel sentire.
L’altro da sé diviene colui-che-è, l’esistente che si presenta e a cui si deve la dedizione possibile secondo il grado di sentire conseguito.
La persona che vede realizzarsi in sé la condizione di straniero, e sperimenta lo sguardo ampio e compassionevole indotto dal sentire, ha ancora bisogno di confidenza, di condivisione, di intimità?
Ha bisogno, come dicevamo all’inizio, di passare per quella porta?
No, evidentemente. Perché?
Per la semplice ragione che raggiunge l’altro non per la via affettiva, ma per quella del sentire.
Nella via affettiva, l’altro diviene fratello in virtù dell’affetto provato; affetto liberato dalla vicinanza, dalla confidenza, dalla condivisione.
Nella via del sentire, l’altro è già non-altro, è già parte del sentire, è già incontrato su quel piano, aldilà del divenire, e non ha bisogno del ponte affettivo, che certamente è presente, ma accessorio.
Ecco allora che la condizione di straniero nel mondo e al mondo, produce una disidentificazione dal piano emozionale-affettivo – che non comporta alcuna freddezza ma, semplicemente, una sostanziale neutralità compassionevole – e permette di sviluppare la relazione sull’unico piano veramente autentico, libero e reale: quello del sentire.
Sotto l’ombrello del sentire, i due sperimentano la fraterna vicinanza, il fraterno procedere esistenziale, il fraterno aiuto.
Le persone focalizzate sul provare emozioni ed affetto, o sul pensare – e sul costruire su questi presupposti le loro relazioni – faticano a comprendere come possa esistere una relazione piena ed appagante, l’unica tale a mio parere, senza la prevalenza di quei piani, anzi, presupponendo la loro presenza collaterale: quando quelle persone avranno un maggiore accesso alla sfera del loro sentire, allora scopriranno che l’amore non è un affetto, sebbene lo comporti, anche.
L’amore non è un pensiero, sebbene lo generi, anche.
L’amore non è un gesto, sebbene lo crei, anche.
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Grazie!
Non so se mi fa bene leggere post come questo. Credo che prevalga l aspetto cognitivo e la conclusione è quasi sempre: non è così per me, non so di cosa sta parlando. Quindi: qui sono un pesce fuor d acqua.
Mi viene però un dubbio: se riuscissi a leggerlo senza far prevalere il mentale, la reazione sarebbe la stessa? Sono così estraneo a quanto descritto?
Forse no, ma faccio fatica a verificarlo.
Penso anche che dei vari riti di cui si parla non mi è mai importato granché, anzi spesso li ho mal sopportati. Ma è la stessa cosa?
Posso portare questa domanda all intensivo, dato che prima volevo iscrivermi e mi sono bloccato lì?
Grazie
A Marco.
Porta pure questo tema all’intensivo..
Grazie!!
Ora comprendo le tante mie resistenze dall’archetipo transitorio della famiglia e dagli archetipi transitori in generale.
Ritrovo molti concetti in questo scritto che a volte penso di aver interiorizzato e a volte invece no deducendolo dal mio comportamento o da stati emotivi che sorgono.
Mi colpisce in particolare il concetto di stato di neutralità di cui parli che sempre maggiormente si presenta e che elimina ogni altro mezzo di connessione.
Quello che questo post esprime fa parte di me, vi aderisco perché mi appartiene come spesso succede quando leggo concetti che sono già miei: questo permette sempre più consapevolezza vista la grande difficoltà che incontro nell’esprimere esteriormente quel sentire che incarno.
Grazie
“…Quella confidenza di base appoggia su di una decisione che la persona prende: quella di abbassare le sue difese, di non temere l’altro, il suo giudizio, o la perdita della sua approvazione.
La persona sceglie di non ascoltare alcune sue paure (contenute nella sua identità conscia e inconscia) e, abbandonandosi ad una fiducia di fondo, permette l’avviarsi del processo.
Quello che poi segue è il naturale manifestarsi di ciò che è sempre presente quando il filtro dell’identità si attenua o scompare: si genera empatia, vicinanza, fratellanza, compassione….”
Mi colpisce quando scrivi che “…la persona SCEGLIE” di non ascoltare alcune sue paure e si abbandona ad una FIDUCIA DI FONDO…”.
Ciò mi dice che la paura che sento -e che quasi sempre ascolto- fa parte del processo. Ho paura di lasciare andare, e di accogliere l’altro come “l’esistente che si presenta”, senza agganciarlo emotivamente e senza forzare una serie di tentativi per condividere, essere vicini, entrare in confidenza.
Sento la fatica di tutto ciò, una grande fatica e il grande lavorio mentale che la causa. Ma ho paura di perdere, ho paura soprattutto della solitudine che può essere presente nella condizione di straniero e di neutralità.
Quando la fatica è proprio grande e la gratificazione assente, decido di mollare la presa, ma appena le cose si “riassestano” in maniera adeguata e la mia identità si “riprende”, dimentico la mia decisione e mi butto di nuovo in questo gioco di attaccamenti.
Credo che questo processo che riguarda le relazioni è lo stesso processo che riguarda ogni fatto della nostra vita in generale, cioè serve la medesima neutralità, il medesimo essere stranieri.
La paura del vuoto mi frega: è anche questa una invenzione dell’identità, suppongo…
A Roberta.
In effetti ogni paura è figlia dell’illusione, eppure è così reale..
Ma è di quella realtà che, non lavorata e non abbandonata, ci impedisce lo sguardo sul Reale..
Letto e riletto per focalizzare meglio i concetti. E’ chiaro che non è sufficiente. Non può la mente comprendere uno stato di coscienza. Allora ho cercato di capire cosa mi fosse di ostacolo. Non certo comprendere cosa significhi sentirsi straniero, condizione che sento e che accetto. Né mi è difficile sentire l’altro, non altro da me, anche se il piano affettivo non è sempre neutro. Ma c’è qualcosa, di tutto il post che fatico a sentirlo come vero per me.
Poi ho capito quale fosse il passaggio a me ostico: “La persona che si affranca dall’archetipo transitorio della famiglia, ne condivide sempre meno l’attrazione e i riti, e sempre di più è portata a sentire i suoi familiari sul piano esistenziale, piuttosto che su quello parentale.”
C’è una zona d’ombra, dove ancora non sono chiari i miei confini familiari, i legami e i condizionamenti. Continuo a lavorarci e ad osservarmi, ma è come se mi mancassero dei tasselli. Non mi sento affrancata da quel tipo di condizionamento e questo è il mio percorso di conoscenza per ora. Il post mi aiuta a capire la direzione da tenere. Grazie.
Alla fine della scorsa estate, è sorta in me una particolare e nuova condizione in cui emozioni e lavorio mentale si sono pacati. Si è frapposta una distanza tra ciò che accade e il coinvolgimento personale. È in pratica sorta quella neutralità di cui parli. Oggi comprendo che quel passo era condizione necessaria per poter incontrare sulla via del Sentire, l’altro che sempre più avverto come non altro. Questo post è importante perché mette in chiaro aspetti che sto vivendo. Grazie.
Percepisco che e’ così come tu descrivi. Cionondimeno continuo a restare aggrappato agli appagamenti identitari per cui coltivo prevalentemente le relazioni in tal modo caratterizzate. Evidentemente un sentire non ancora evoluto o qualche cristallizzazione operata dai corpi inferiori finché sarà necessario. Grazie.