Per la mia preghiera, quando essa non è silenziosa, è lo è nella quasi assoluta totalità dei casi, uso il Libro della preghiera universale di Giovanni Vannucci.
Frequento anche i Salmi, con intensità variabile, essendo la mia casa il silenzio e lo svelarsi dell’Assoluto in esso.
Nel mio ambiente spirituale, tra i miei fratelli e sorelle nel cammino, i Salmi sono mal digeriti; sono invece gradite quelle contemplazioni della condizione unitaria così diffuse nella cultura spirituale dell’oriente.
Sembra ai miei compagni di viaggio, che i Salmi siano irrimediabilmente datati, ed espressione di una logica eccessivamente duale.
Qui non voglio discutere dei salmi, né dell’edificazione prodotta in noi dalle contemplazioni unitarie di fattura orientale.
Voglio invece discutere del valore e del limite del’una e dell’altra espressione alla luce dell’esperienza del mio quotidiano interiore.
Quando il salmista canta il suo lamento, cosa provo?
Quando canta la sua gioa e gratitudine e lode?
Quando il sufi, lo yoghin celebrano con le loro alte parole l’unità d’Essere, cosa vibra in me?
Quando in me c’è separazione, a poco mi serve il lamento del salmista.
So, invece, che ad altri quel lamento è memoria di una condizione comune e condivisa, e quindi di qualche aiuto e conforto.
In me, il suo lamento è solo il suo lamento: se sono frammentato, cerco rapidamente la causa ed opero il necessario per il riequilibrio nei vari corpi, per la loro integrazione, per superare l’identificazione ed essere di nuovo nella condizione di ascoltare il Determinante da cui mai mi sono separato.
Il processo che avviene in me non ha bisogno di un catalizzatore, non sono la lettura, la recitazione, il ripetere e il ruminare che mi sono d’aiuto: lo è la consapevolezza duplice della frammentazione e dell’unità, un occhio vede l’una e l’altro occhio l’altra, e in conseguenza di ciò accade la sintesi che è sempre unitaria.
Il tempo dell’affermarsi della sintesi unitaria può essere variabile, ma l’esito è certo.
Ripeto, so che per altri non è così: quel leggere, ripetere, ruminare è loro di aiuto nel vivere lo stesso processo che vivo io, e per giungere alla stessa sintesi.
Quando in me c’è unità, le parole di altri sono solo di sovrappiù, non necessarie.
La mia ecologia interiore è fondata sul togliere, non sull’aggiungere: se l’Unità è operante, cosa aggiungere ad essa?
Parole di altri, o mie per celebrarla?
Può darsi, so che per alcuni è così; per me quelle parole sono solo un di più, l’Assoluto non ha certo bisogno della mai celebrazione.
Perché allora aggiungere un di più a qualcosa che già basta a se stesso? Che è sovrabbondante?
Perché così facendo mi concedo di vibrare all’unisono con l’autore di quelle parole, in una sorta di celebrazione condivisa, cosmica?
Mi verrebbe da chiedere: chi vibra con chi?
Il sentire condiviso non ha necessità di questa rappresentazione, perché precede e trascende ogni rappresentazione.
Può però accadere che un sentire unitario, quindi necessariamente condiviso e cosmico, produca commozione e faccia sbocciare parole e gesti che, se siamo soli, divengono la scrittura di un testo, o la sua recitazione; se siamo in comunità, divengono canto magari, e comunque forte esperienza d’insieme.
L’umano, da sempre, usa parole e gesti, segni e simboli nella sua relazione con l’Assoluto, ma a me sembra che maturi una stagione, in alcuni di noi, in cui questo viene superato, almeno nell’esperienza intima e personale che si impregna di silenzio e di ascolto.
Da quel silenzio e da quell’ascolto può sorgere un canto, sgorgare una parola e con essa la possibilità di farne dono: questo è naturale, innumerevoli generazioni di mistici hanno sperimento e comunicato in questo modo il loro sperimentare unitario.
Questa è la parola che non è più parola, è Essenza: come tale è stata ricevuta e viene donata.
Ricapitolando: non voglio sostenere il valore della recitazione, o il suo non valore; non mi interessa sostenere la preminenza della via del silenzio.
Prendo atto che innumerevoli sono le vie: quella a me familiare e congeniale è fondata sul silenzio e sui suoi frutti, senza il bisogno di catalizzatori.
Per altri è diverso: perché allora parlo di questo se, alla fine, ogni via è legittima?
Per rincuorare coloro che, lontani da ogni tradizione religiosa e spirituale, come sono i miei fratelli e sorelle nel cammino, sono estranei a tutte le pratiche:
a loro non dico di adottarne una, ma di saper ascoltare il silenzio.
Parecchio tempo fa, scrivevo sulla preghiera quello che riporto di seguito: non so se oggi scriverei le stesse cose, forse sì, sebbene il silenzio abbia “mangiato” molte parti della mia capacità di speculare concettualmente e io tenda ad esprimermi con più semplicità.
Non è l’uomo che genera la preghiera,
è la preghiera che genera l’uomo,
la sua realtà nella verità,
nell’autenticità,
nell’essenziale.
Tutta la vita non è altro
che lo svelamento
di quella parola,
di quella nota,
di quella sostanza d’Essere.
La preghiera è l’affiorare
alla consapevolezza
dell’essere costitutivo di ognuno.
Non è l’uomo che si rivolge a Dio,
è la rivelazione di Dio
che dà forma all’uomo
e a Lui si rivolge senza sosta,
essendo Lui.
La preghiera è relazione profonda,
indissolubilmente interna all’essere di Dio,
al sentire di Dio,
dinamica tra gli infiniti gradi del sentire
che Lo costituiscono,
tra Sé e l’immagine di Sé nel divenire.
La preghiera non è interlocuzione
tra due soggetti.
Letture per l’interiore: ogni giorno, una lettura spirituale breve del Cerchio Ifior e del Cerchio Firenze 77, su Whatsapp.
(Solo lettura, non è possibile commentare) Per iscriversi
Politica della privacy di questo sito da consultare prima di commentare, o di iscriversi ai feed.
Da parecchio tempo ho smesso di leggere i salmi. Quando però sono invischiato nell’identificazione, alcune espressioni affiorano automaticamente (ad esempio: “dal profondo a Te grido…”), come pure quando vivo nella gratitudine (“cosa renderò al Signore x quanto mi ha dato?”).
I salmi sono parte di me. Il dualismo degli autori l’ho trasceso, non mi crea nessun disagio. Li uso come strumento per consolidare la prassi unitaria, vacillante o relativamente stabile che sia
Durante un lungo periodo in cui in me c’era separazione, ho usato a lungo i Salmi, ma non tanto perchè fossero consolatori, quanto perchè mi facevano sentire in relazione unitaria col Padre. Ora li ho interiorizzati, hanno arricchito il mio sentire, e non sento più la necessità della loro lettura, ma mi tornano sotto forma di mantra, in qualunque momento della giornata o quando devo riallinearmi .Quasi sempre ogni parola è di troppo ma mi sorge un moto di gratitudine quando leggo la Parola che sorge da chi ha vissuto un’esperienza mistica.
Mi ritrovo molto nella modalità da te descritta del silenzio pur se la mia esperienza non è paragonabile. Le tue parole e la tua testimonianza fungono da sostegno e offrono la possibilità di approfondire. Difficilmente da solo darei credito a posizioni così eterodosse. Grazie.