Questo spazio viene aggiornato in continuazione con materiali inediti e d’archivio.
L’amore deve essere associato al concetto di bontà? Non direi.
L’amore non è buono, è il principio che fa incontrare gli esseri e li conduce alla consapevole unione con l’Assoluto: questo non ha a che fare con la bontà, ma con la verità.
Vero è ciò che svela e rivela il Reale.
Ecco allora che l’amore è forza attiva che rompe equilibri così come placa tormenti: è forza che guarisce e che sferza; che crea e che distrugge.
L’amore liberato dalla bontà, diviene pedagogia e didattica della relazione, del darsi e del ricevere, del costruire officina esistenziale assieme a tutti gli esseri.
Dal post: L’amore liberato dalla bontà, 12.7.2018, pubblicato qui il 21.2.2020
Cerchiamo la sorgente
e non ci rendiamo conto che siamo la sorgente
Dal post: Chiamiamo caldo ciò che scalda le identità e freddo ciò che toglie loro appigli del 7.8.2019
Quando una persona vive una difficoltà siamo soliti affermare: “Mi dispiace!”
Perché abbiamo bisogno di una affermazione così banale, così sbagliata?
Quella difficoltà è ciò che quella persona può proiettare, ciò che le funzionale: è la sua vita, perché ci dispiace per la sua vita?
Di fronte a quella narrazione ci sembra brutto rimanere in silenzio, quel “Mi dispiace!” diviene allora un modo per dire: “Ti sono vicino!”, “Mi dispiace che soffri!”.
Ma è vero che le siamo vicini? Come?
Considerandola sfortunata? Vittima di qualcosa, di qualcuno, dell’ingiustizia matrigna onnipresente? Anche.
Le siamo vicini emotivamente, affettivamente, cognitivamente?
Sì, certo, le siamo vicini in tutti questi modi, abbiamo bisogno di sentirci vicini in questi modi altrimenti ci sentiamo degli egoisti, degli insensibili.
C’è un altro modo di essere vicini a questa persona: nel sentire.
Cosa significa? Che possiamo azzerare tutto quello che abbiamo detto fino a questo punto, dunque tutte quelle reazioni che rubrico alla voce del banale e dell’ovvio, e, finalmente, ascoltare quella persona, la sua storia, la sua difficoltà e iniziare, tra sé e sé, la decodifica dei simboli di quella difficoltà sulla base dei pochi, o tanti, dati che abbiamo a disposizione.
Incontreremo quella persona là dove nasce la sua difficoltà, nel profondo del nodo esistenziale che si trova a vivere: se ce ne darà modo, accenneremo a qualcosa di ciò che abbiamo indagato e intuito; se non ce ne darà modo, non sarà un problema.
Qual’è la sostanza di quello che vado dicendo?
È che la relazione stereotipata ci vela la conoscenza e la comprensione: l’automatismo, il costume, la morale uccidono l’autenticità.
Non si tratta di assurgersi a lettori e interpreti delle sfide esistenziali degli altri, si tratta di guardare più in profondità liberi dall’ovvio e dal banale. 15.2.20
Un insegnante è come un genitore, sotto molti punti di vista: deve assecondare lo svelamento del principio che si incarna nel figlio/discepolo, e poi, facendo molti passi indietro, o provocando alcune fratture, deve lasciare che il figlio vada.
Ho seguito entrambe le strade, una volta che ho ritenuto concluso il mio contributo formativo – o nel mentre esso con qualcuno si esauriva – e la più complessa è stata la seconda, la via delle fratture.
Si pensa sempre ad un insegnante come a qualcuno che unisce, ma non è così: si insegna unendo e si insegna dividendo, e il dividersi a volte è doloroso.
Ho visto il processo del dividere, del separare, della frattura che prendeva corpo e manifestava la sua energia.
Ho visto incresparsi il dolore nei corpi miei e dell’altro.
Ho visto la quiete oltre questo processo, la consapevolezza profonda che quello era il bene per quella persona, il bene esistenziale che poteva accadere in quel momento, in quella situazione data
Ho fatto qualcosa per arrestare il processo? No, non ho fatto niente: quando l’altro avvia quel processo vitale, esso va assecondato e non bisogna mettersi di mezzo ed ostacolarlo.
Ho invece fatto molto prima, per prevenirlo, e l’ho fatto dandomi senza riserve, nel contesto del mio limite.
Quando infine l’altro abbandona il genitore/insegnante, tutto è compiuto: non conta come l’altro se ne va, cosa afferma, come la sua mente recrimina; conta ciò che c’è nel nostro intimo.
Se c’è pace, allora quello che abbiamo operato era il possibile a noi, l’onesto che potevamo mettere in campo: l’intenzione ci salva dalla mente e dalle colpe che si porta appresso.
Queste riflessioni nascono da uno sguardo disteso su quasi tre decenni di insegnamento, e mi inducono a benedire ogni attimo dell’unire e del dividere che la vita mi ha concesso di vivere. 14.2.20
Quando la manifestazione di una mia intenzione, di un proposito, di un’azione, di una responsabilità liberamente assunta è palesemente inadeguata, tendo a chiedere naturalmente scusa: mi imbarazza quella inadeguatezza, non solo la eventuale brutta figura, ma la consapevolezza di aver espresso male, poco, o in maniera distorta quanto avrei potenzialmente potuto.
La chiave è in questo “potenzialmente potuto”: se qualcosa non lo padroneggio, non ho di che chiedere scusa; ma se è alla mia portata, come giustificare la manifestazione inadeguata?
A partire da ciò, guardo a volte basito il mondo e prendo atto di quanto poco diffuso sia il costume dello scusarsi per certe mediocrità le cui conseguenze ricadono sulla vita dei singoli e delle collettività a volte in modo molto pesante.
13.2.20
Che tu possa vivere oltre il tempo, lasciando che ogni fatto ti attraversi come il vento tra i rami solidi e spogli delle querce in inverno.
Che tu possa imparare dalla brezza come dalla tempesta, affinché non possa mai dire: oggi sono come ieri. 11.2.20
Potremmo anche dire che tutto il cammino umano altro non è che un evolvere dal bisogno di essere amati, alla capacità di amare senza scopo.
Il bisogno d’essere amati pone noi al centro; l’amare gratuito vi pone l’altro, o il semplice esistere.
Tweet del 12.2.18, pubblicato qui il 5.2.20
Generalmente non ascoltiamo; quando lo facciamo, il nostro è, molto spesso, un ascolto cognitivo.
Esiste un altro modo, molto diverso, di ascoltare: con l’apparato sensoriale, con quello emozionale, con la disposizione affettiva, con il pensiero, con il sentire.
È cioè possibile ascoltare con l’insieme dell’essere, sintonizzandolo come fosse un ricevitore radio, cogliendo l’intera banda delle frequenze che giungono e lasciandole risuonare in sé.
Da: Ascoltare con l’insieme unitario dell’essere, pubblicato qui il 3.2.20
C’è un tempo per unire e uno per dividere.
Ho lavorato per decenni per unire e, alla fine, ho dovuto impegnarmi per dividere.
Ci sono persone che naturalmente risiedono in una rarefazione e hanno necessità di incarnazione. Ce ne sono altre eccessivamente legate alla materia e al fare, e abbisognano di escarnazione, di leggerezza e impermanenza.
Un organismo unitario tiene assieme gli uni e gli altri finché intende formarli, fornire loro le basi per affrontare sé e il mondo che creano.
Poi viene una stagione, e noi ci siamo entrati da tempo attraverso una lunghissima transizione, in cui ognuno si interroga su cosa veramente vuole fare della sua vita: ecco allora che quel corpaccione unitario inizia ad incrinarsi, si supera l’abitudine al procedere assieme e si comincia a scegliere.
Ogni persona deve obbedire al proprio disegno esistenziale, ciò che fino ad ieri era bene per sé, oggi potrebbe non esserlo più tanto: inizia il processo prolifico e fecondo del dividere, dove ciascuno prova a trovare il proprio posto, la propria vera vocazione da adulto della via e della vita.
E’ una fase molto bella, molto creativa, molto produttiva da seguire con attenzione e senza intromissione.
Chi pensava che l’unire fosse un valore assoluto, è tenuto a ricredersi; coloro che ritenevano il dividere un male, debbono riconsiderare la propria opinione.
Il dividere prepara l’unire, e l’unire genera divisione che incuberà nuova e più evoluta unione.
Il dividere in sé è mortifero; l’unire in sé è mortifero: il ritmo di unione e divisione è vita che danza. 1.2.20
Come un manto,
la sera che viene avvolge di silenzio
ogni pretesa dell’umano:
allora s’impone la sinfonia del Creato.
(31.1.20)
Si può essere grati per il poco come per il tanto, ma se non si è capaci di vedere la grazia dell’Essenziale che il poco porta, e di goderne la benedizione, l’unica funzione che il tanto avrà sarà quella di conduci allo smarrimento.
Allora, nello smarrimento e nella sofferenza, impareremo a vedere il valore del poco, dell’Essenziale. (29.1.20)
Una via spirituale è un processo che ti nutre e ti mette in scacco.
Se ti nutre soltanto, è una fumeria d’oppio.
Se ti mette in scacco solo, è un patibolo.
Se alterna l’uno e l’altro, è come la forca che penetra nel terreno ben temprato.
Da: L’indagine che conduce alla radice del reale e la gratuità,1.1.2018, pubblicato qui il 27.1.20
Solo colui che ha conosciuto la gratuità, l’azione senza scopo, la pratica senza guadagno, l’esperienza senza gratificazione ha accesso alla sostanza dell’Essere.
Non c’è Essere finché c’è scopo, finché c’è motivazione personale, finché c’è ricerca di qualcosa: quando la ricerca che ha al centro sé, muore, allora il presente si dispiega come accadere gratuito, allora nulla ci è estraneo e finalmente cominciamo a vivere intimamente la vita.
Da: L’indagine che conduce alla radice del reale e la gratuità, 1.1.18, pubblicato qui il 25.1.20
Troppa attenzione, nella via spirituale, dedichiamo al fatto che abbiamo una immagine di noi, quel qualcosa che chiamiamo identità.
Dimentichiamo che essa è fisiologica, la risultante dei processi che vedono coinvolti i corpi transitori, il frutto della circolazione dei dati tra questi e la coscienza.
Più attenzione dovremmo invece prestare a quanto siamo attaccati a questa immagine di noi, a quanto ci sforziamo di renderla duratura, costante, coerente.
In sé, non è quella immagine di noi che ci vela la Sorgente, lo è invece il nostro attaccamento ad essa. (22.1.20)
Una giornata, anche quando segue un copione predefinito, può essere come una pagina bianca su cui trasfondere un sentire: non conta cosa facciamo, ma con quale intenzione. È l’intenzione che ci libera dall’usura della routine.
(Tweet del 14.2.18, pubblicato qui il 20.1.20)
“Dio deve essere un pittore, altrimenti perché utilizzerebbe tutti questi colori?”
Da: A beatiful mind
Frammenti di passato ci attraversano e ciò che ci colpisce di più è la sollecitudine mancata, la sofferenza prodotta all’altro, l’intralcio che, a volte, abbiamo rappresentato per il suo cammino esistenziale ed umano.
(Tweet del 10.2.18, pubblicato qui il 18.1.20)
Non dalle parole
sorge la Parola, il Significante,
ma dal silenzio di sé,
quello più fecondo.
In ogni angolo di strada,
in ogni sasso e in ogni respiro
quella Parola si rivela.
(Tweet del 7.2.2018, pubblicato qui il 15.1.20)
Le persone amano dire che, nonostante il loro silenzio, sono vicine a qualcuno, persona o gruppo che sia. Intendono dire che sono vicine nel pensiero, che non hanno dimenticato.
Capisco, è il loro modo, quello che possono, che vogliono permettersi.
Chi scrive è avaro di parole, salvo nei momenti in cui sono davvero necessarie, e si tiene lontano dalle relazioni attive, dunque potrebbe usare quella espressione, dire che è vicino a qualcuno nonostante il suo silenzio. Ma non lo fa. Perché?
Per una ragione molto semplice: se è vicino a qualcuno, se tiene a qualcuno, manda segnali discreti ma chiari, inequivocabili, che l’altro possa cogliere, riconoscere con facilità.
Se ha qualcuno semplicemente nel cuore, insieme a tanti altri, allora quei segnali specifici non ci sono, c’è una tenerezza, una compassione che si sparge attraverso parole, vibrazioni che vanno in tutte le direzioni, non in una specifica.
Ieri m’è sorto il pensiero di un’amica, e le ho scritto. M’ha risposto:”Che bella tempistica, sto registrando le tracce audio del nuovo disco!” Fa la cantante..
Le ho risposto, scherzando: “Non è tempistica, è telepatia!”.
In effetti è telepatia: se sei in connessione con qualcuno che ti è caro, lo senti su vari piani e, quando lo senti, poi ti viene da contattarlo anche sul piano dei sensi fisici, insomma scendi dal sottile al tangibile, dall’intenzione al gesto, dal pensiero all’atto.
Ecco perché, a chi scrive, non piace l’espressione rituale: “Ti/Vi sono vicino”.
Se sei vicino, veramente, il tuo esserci diventa visibile, qualcosa che mi/ci giunge in modo diretto, inconfondibile e inconfutabile.
Se questo giungere diretto non c’è, allora sono portato a considerare che mi/ci sei vicino, certamente, ma in quel modo un po’ generico del tipo: “Siamo vicini a tutto coloro che hanno vissuto quel tal fatto”.
Nella mia vita qui nell’eremo, sono vicino nel sentire a tanti, e quando siedo in meditazione, quando prego, ho nel cuore l’augurio di ogni possibilità esistenziale per queste persone.
Allo stesso modo quando scrivo, mi auguro che le mie parole possano portare una possibilità di comprensione, o semplicemente una consolazione.
Ma quando una compassione mi attraversa, un moto d’amore si impone, allora, per me, dire: “Ti/Vi sono vicino”, non ha significato: voglio che la connessione tra te e me sia vivida, anche se dura un attimo, desidero che la mia intenzione ti giunga inequivocabile.
Poi mi ritraggo, e magari per il prossimo gesto si dovrà aspettare un anno, ma questo fa parte dell’orso eremita… (15.1.20)
Quando le nostre reazioni aggiungono qualcosa al reale qualificandolo secondo il nostro gradimento, esso scompare e rimane solo la nostra aggiunta che va a nutrire l’idea che del reale abbiamo, non altro.
(Tweet del 7.2.2018, pubblicato qui il 14.1.20)
Non un solo rumore nella notte, gli ultimi carboni si spengono, non rimane altro da fare.
(Tweet del 6.2.2018, pubblicato qui il 14.2.20)
Nella babele di voci e di emozioni tirate come sassi che giungono dal mondo, trascorro queste giornate immerso nel silenzio della campagna immobile nella foschia.
La via è togliere, non aggiungere.
(Tweet del 6.2.2018, pubblicato qui il 14.2.20)
La benedizione di un passo indietro, di una parola taciuta..
(Tweet del 6.2.2018, pubblicato qui il 14.2.20)
L’amore è un’intenzione che sorge inaspettata,
un pensiero, un affetto, un’emozione, un gesto
che si formano come la rugiada durante la notte.
Su tutti piani vibra l’amore,
e attraversa, risuonando, tutti i corpi.
E’ come il sole che scalda le creature del giorno,
e come la luna che suggerisce a quelle della notte.
L’amore non è nostro,
non possiamo dire:
questo è il mio amore,
così come non possiamo dire:
questo è il mio sole, la mia luna,
la mia rugiada.
(13.1.20)
Giovanni 12,24-26
Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Da tiepidi viviamo, fuoco che non scalda sembriamo essere.
Contiamo e centelliniamo il tempo dato alla Via, e gettiamo ore e giorni nella vacuità del niente.
Il mantra del “non ho tempo” arriva anche qui nel mezzo delle colline, nel silenzio della sera, nella lontananza dall’affanno di sé: lo ascoltiamo a volte con benevolenza, altre con fastidio.
Ciascuno estrae la sua esistenza dall’Indifferenziato Essere e, se ha necessità di estrarla nell’asfissia del tempo, così sia.
Osserviamo e taciamo, e cerchiamo di rispondere a coloro che, consapevoli delle narrazioni delle proprie identità, provano di aprire un varco nelle mille scusanti prive di verità. (12.1.20)
Ogni sera, nell’apprestarmi al sonno,
una commozione profonda mi scuote:
la consapevolezza dell’unione in Te,
e la nostalgia struggente della sua completezza,
mi travolgono.
Mi abbandono in Te,
unico mio rifugio. (11.1.20)
Risposta ad una domanda di Roberto DE del 23 Agosto 2019, relativa alla relazione con l’altro, al come comportarsi di fronte ai suoi limiti.
Un caposaldo del Sentiero è dubitare di tutto, innanzitutto di sé, senza per questo paralizzarsi.
Se non dubiti di quello che dell’altro ti sembra di vedere, diventi uno “spara sentenze”.
Quindi vedi qualcosa, lo dici anche, ma non divieni un combattente, perché sai che quello che hai visto può essere semplicemente sbagliato, o troppo limitato, o, più semplicemente, accadendo davanti a te, è certamente anche e soprattutto per te, e dunque potresti vederlo solo nel tuo film, solo nella tua variante, o comunque potrebbe avere un senso prevalente per te, più che parlare dell’altro.
[…] Se dell’altro non posso mai dire niente, vanifico gran parte delle relazioni e della possibilità di imparare.
Invece, consapevole che dell’altro ho una vsione estremamente limitata e spesso illusoria, sto nella relazione, nel dialogo, dico cose su di me e sull’altro, ma quelle che dico sull’altro le illumino con il dubbio.
La relazione è una rappresentazione illusoria che si intesse per il nostro beneficio: ciascuno dei due vive il suo film, ma devi considerare che là dove c’è condivisione di sentire, il film diviene unico, condiviso.
E comunque, anche nella singolarità del film, noi viviamo sempre la relazione come fosse reale, questo ci permette di avventurarci nel campo altrui, ma, se non abbiamo dubbio e ironia, generiamo dolore.
Pubblicato qui il 10.1.20
Madre,
tienimi per mano
in questo procedere attraverso il niente.
(Tweet del 31.12.18, pubblicato qui il 9.1.20)
“C’è una virtù che è nemica della follia: è l’umiltà. In effetti, colui che è umile, è giudizioso sull’essenziale, poiché sa come mettersi al suo posto. E quando restiamo al nostro posto, che è l’ultimo, ricominciamo in novissimo loco (Luca 14,10) – vediamo le cose nella loro vera luce”.
“Se l’anima è abitualmente rivolta verso Dio, che di solito la guarda in faccia, impara la beata dimenticanza di tutto ciò che non è il suo amore”.
Dom Jean-Baptiste Porion, Un sermone per l’Epifania (traduzione orribile..)
Pubblicato qui il 7.1.20
Tu che vedi oltre l’apparire delle cose,
delle intenzioni, dei pensieri e dei fatti stessi,
credi che esista qualcosa, qualcuno che possiamo definire persona?
Io non credo.
Non vedo persone,
vedo complessi di intenzioni, di pensieri, di azioni
molte volte non coerenti,
tenuti insieme dall’artificio della interpretazione.
L’interpretazione crea la realtà del soggetto che chiamiamo persona,
al quale affibbiamo un nome, delle caratteristiche, un posto nel mondo,
nelle nostre vite.
Oltre l’interpretazione c’è la complessità,
la quale è logica secondo il sentire,
ma non coerente dal punto di vista del divenire, dell’umano.
Evolviamo secondo logica,
ma non secondo coerenza.
Ciò che in realtà accade,
è che intenzioni diverse generano tentativi e scene
di comprensione diverse:
un apparente guazzabuglio incoerente,
dove, ad esempio, scene di egoismo si alternano a grandi altruismi..
Tu che vedi oltre l’apparenza,
sostenici nel tentativo di decodificare i codici del guazzabuglio,
affinchè noi si possa non perderci in esso,
mantenendo fisso lo sguardo sul quadro d’insieme,
sulla trama esistenziale del nostro procedere,
più che sul singolo e isolato fatto. (6.1.20)
Un’amica chiede cosa ci unisce, come persone, e cosa ci divide.
Ci unisce il processo del comprendere di questa vita e delle innumerevoli altre, molto simile per tutte le persone.
Ci divide la lettura che diamo dei fatti, conseguenza delle comprensioni personali già acquisite.
(Tweet del 9.2.18, pubblicato qui il 4.1.20)
L’apertura costante all’intuizione, dunque ai dati che sorgono dal sentire, rende marginale il processo cognitivo: nell’intimo sorge una sorta di resistenza al pensare. La disposizione complessiva è unitaria e volge alla contemplazione dei dati che affluiscono dai vari piani.
(Tweet del 14.12.18, pubblicato qui il 4.1.20)
Dinamiche del corpo emozionale-astrale
Domanda Nadia – Il corpo astrale è caratterizzato da una grande mutevolezza di vibrazione e aggregazione di densità. Cosa genera questa mutevolezza e quali ripercussioni ha sugli altri piani?
E’ la sua natura, è mutevole, così è stato progettato.
Certamente influisce sia sul fisico sia sul mentale come, ahimè, tutti sperimentiamo.
– Scusa, in che modo lo sperimentiamo? Non è chiaro.
Non senti nel corpo fisico l’eccitazione astrale, o la sua depressione?
E l’eccitazione emotiva non ti va alla testa? (Al corpo mentale)
Considerazione Paolo – Provo a formulare un’ipotesi sulla base della mia esperienza. Trovo che la mutevolezza del corpo astrale sia funzionale al divenire consapevoli delle proprie comprensioni e non comprensioni, andando oltre ciò che la mente si racconta. Le emozioni e i desideri del corpo astrale così variabili sono delle ottime spie per valutare lo stato dell’arte, i processi in atto.
Certamente, anche questo come conseguenza..
Ma provate a pensare se il Progettista non avesse munito di corpo astrale le piante o gli animali? O noi? Che piattume sarebbe la vita con il freddo delle menti..
(Discussione avvenuta il 15.8.19, pubblicata qui il 2.1.20)
Madre di tutti noi,
accompagnaci nel nostro itinerare nel tempo e nell’illusione.
Abbiamo chiaro l’orizzonte, anche se i passi, a volte, sono incerti. (31.12.19)
“La solitudine è continua tutto il giorno”, nel chiostro, nelle celle e in tutto il monastero, è possibile ascoltare solo gli uccelli e l’acqua che scorre nella fontana del giardino. La voce umana è rara. “Fuori c’è molta solitudine e silenzio, ma per noi sono cose diverse. La solitudine è un mezzo per Dio e ciò implica il silenzio. La solitudine è negativa quando è la solitudine con se stessi ed è positiva quando è la solitudine con Dio.
“Quando si arriva in certosa da fuori, è normale voler parlare, ma col passare del tempo, più taci, più ti piace. Abbiamo perso l’abitudine di parlare”.
Dalla certosa, il mondo non è un posto lontano.“Non devi andare in un bordello o in una casa di prostituzione per sapere come soffrono queste donne. Non devi essere in guerra per pregare. La nostra comprensione del mondo è maggiore o migliore di quanto si pensi”..
Dom Antão Lopes, priore della certosa di Santa Maria Scala Coeli in Portogallo. Fonte
Pubblicato qui il 29.11.19
Il giardino della mia cella.
Da un monaco della certosa di Miraflores (Spagna).
Mi basta questo piccolo
Pezzetto dell’universo,
Che da altri ho ricevuto, ereditato,
Il deserto dove mi ha guidato.
Qui piove, da qui vedo il sole,
Di notte la luna mi visita con il suo silenzio,
Qui, in questo pezzetto dell’universo
Incontro il Dio Creatore.
Giardino di lacrime,
Giardino di contemplazione e lodi,
Prigione delle mie preghiere,
Che si levano in paradiso.
Mi basta questo piccolo
Pezzetto dell’universo,
Nella sua solitudine e silenzio,
Mi ritrovo con la pace di Dio.
Un certosino, Fonte, pubblicato qui il 24.12.19
Madre,
lascia che io possa sprofondare nell’irrilevanza del presente,
là dove ogni scena dell’ordinario danza sulle Tue mani,
e in ogni dettaglio si mostra il Tuo volto. (22.12.19)
Sperimento l’amore di Dio come Ciò-che-è e come-Ciò-che-diviene.
Nel Ciò-che-è, esso è una forza, una pressione, una vibrazione che pervade ogni particella di ogni corpo e viene sentito come vastità, potenza e compassione infinite.
Nel Ciò-che-diviene, esso è il gesto estroverso e creativo, la sensibilità estrema per il pianeta e il cammino esistenziale degli esseri, la spinta a servire e il rammarico per essere, oramai, ampiamente fuori gioco.
La potenza e la pervadenza dell’esperienza trasformano in profondità i corpi e, quasi sempre, li lasciano provati. (22.12.19)
“In questa rivelazione compresi sei cose[…]: La quarta sono tutte le cose che egli ha creato, perchè so bene che il cielo e la terra e tutto ciò che è creato è grande, magnifico, bello e buono. Il motivo per cui tutto mi appariva così piccolo era il fatto che io vedevo tutto alla presenza di lui che è il creatore. Perché a un’anima che vede il creatore di tutte le cose, tutto sembra piccolissimo.
La quinta è che egli ha fatto tutte le cose che ha creato per amore, e col medesimo amore le custodisce e le custodirà senza fine.
La sesta è che Dio è tutto ciò che è buono, per quanto capisco, e la bontà che tutte le cose hanno è lui.”
Giuliana di Norwich (1343-1416), mistica inglese. Edizioni Ancora, pag 152-153. Pubblicato il 22.12.2019
Più il mondo si approssima con la sua aura di bisogni, di desideri e di ipocrisia, più mi ritraggo nelle caverne del mio monte interiore: per difendermi, per non vedere lo scempio, perché, pur comprendendo tutto questo, ne colgo il portato di dolore che inevitabilmente innesca e innescherà. (22.12.2019)
Oltre il velo ci sei Tu, l’Esistente Reale.
Ho imparato a vedere, conoscere,
sorridere dell’irreale realtà del velo.
Non mi spaventa, né mi affascina.
È come l’ombra che ci segue,
la conseguenza del Tuo assumere
la forma del divenire.
(Tweet del 9.12.18, pubblicato qui il 22.12.19)
La vera tradizione cristiana
A chi si domandasse se qualcuno vi è ancora a conservare la vera tradizione cristiana, risponde l’Evangelista Giovanni, raccontandoci che, alla morte del Maestro, il discepolo prediletto prese con sé Maria ed essi furono come madre e figlio.
Inoltre: “E Pietro, voltatosi indietro, vide venirgli presso il discepolo che Gesù amava e domandò: Signore e di lui che sarà?”
Gesù rispose: “Io voglio che Egli rimanga finché io torni. Che ti importa?“
Giovanni simbolizza l’insegnamento occulto, la vera tradizione cristiana, e tale rimarrà fino a che Cristo non sia tornato dall’intimo di ogni uomo.
Dali, Cerchio Firenze 77, 21 febbraio 1954, pubblicato qui il 21.12.2019
Ciò che abbiamo scritto ieri, oggi lo scriveremmo diversamente. Ciò che diciamo oggi, domani lo diremo in un altro modo, questo perché ogni giorno comprendiamo nuovi aspetti del reale e della natura dell’Assoluto.
Inoltre, ciò che diciamo è sempre un appunto, l’avvio di una riflessione: se volessimo trattare esaustivamente dei temi non scriveremmo dei post, ma dei libri. Il compito di un post è quello di stimolare un processo in chi scrive e in chi legge..
Letture per l’interiore: ogni giorno, una lettura spirituale breve del Cerchio Ifior e del Cerchio Firenze 77, su Whatsapp.
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“Nel Ciò-che-diviene, esso è il gesto estroverso e creativo, la sensibilità estrema per il pianeta e il cammino esistenziale degli esseri, la spinta a servire e il rammarico per essere, oramai, ampiamente fuori gioco.”
Questo passaggio mi ha colpito. Perché parli del rammarico di essere fuori gioco.
Di fronte a queste riflessioni che toccano l’essere, cosa dire delle proprie meschinità, del proprio non compreso, delle pretese dell’io di dire sempre l’ultima?