La necessità di uscire dall’assurda logica di assoluto e relativo (Appunti)

Nel post Da questo sogno si può uscire quando se ne è compresa la natura compare il termine consapevolezza non attribuito a un soggetto:
“Per poter vedere-sentire-vivere questo, abbiamo avuto bisogno che la consapevolezza fosse permeata dai dati di altri sensi”;
“La consapevolezza unitaria* ha avuto, “a un certo punto”, la consistenza e la qualità per sentire in modo più completo il Reale che andava sperimentando”.

Al Lettore.
I post di questa fase sono come il ferro incandescente sotto la mazza del fabbro: più il fabbro batte, più il ferro si modella. Chi scrive questi post non si cura della forma, ha l’urgenza di fissare ciò che sorge dall’intuizione e non si ferma per smussare e levigare, questo appartiene a una fase futura.

Non parlo di Consapevolezza mia o tua, o comunque attribuibile a un soggetto, ma di Consapevolezza tout court.
Questo centro di coscienza è consapevole di qualcosa che È, che accade e che non è suo, eppure esso lo attraversa e lo permea in diversi gradi e a diversi livelli: perché, come, cosa vuol dire?

Potremmo assimilare la Consapevolezza a una vibrazione standard che permea l’universo, potrei anche dire: la Consapevolezza di Dio.
Se Dio percepisce tutto ciò che esiste in sommo grado (a cui diamo valore 100 su 100), potremmo anche dire che ogni vivente che si manifesta nel divenire percepisce l’esistente in un grado inferiore, potendo esistere una sola consapevolezza assoluta.

A seconda del sentire conseguito, nell’illusorietà del divenire, il vivente sarà consapevole del reale illusorio e del Reale unitario in vario grado.
Dunque, ogni vivente è attraversato dal grado di Consapevolezza dell’Essere che gli è dato in relazione al sentire conseguito, il quale genera le antenne/stazioni riceventi la vibrazione, ovvero i corpi transitori.

Questo possiamo dire nell’ottica del divenire, stando dentro all’illusione dove il sentire diviene, e le scene che esso crea pure divengono.

Qual è il senso, lo scopo di questo discorrere? Arrivare a dire:
– la Consapevolezza esiste a prescindere dalla ricevente;
– il lavoro esistenziale va fatto sulla ricevente.

Cosa ostacola, limita la ricevente, il centro di coscienza e di espressione?
La sua natura? Perché limitata? Limitata da cosa?
Dai veicoli, ai vari livelli, direte.
Limitata dal sentire? Tutte risposte legittime, ma non convincenti, non sentite da chi scrive come vere.

Tutto il discorso è limitato dall’adesione al programma del limite.
Dall’adesione che afferma: solo Dio non è limitato, tutto il resto lo è.
Ma è vero?

Quando sorge la sofferenza? Quando non accetto la mia condizione.
Ma se io l’accettassi e me ne fregassi sommamente di essere la Consapevolezza assoluta?
Se da centro di coscienza in grado di “vibrare” Consapevolezza di un dato grado accettasi incondizionatamente questo stato, soffrirei?
Non sarebbe quella la perfezione a me possibile oggi?
E siccome l’oggi, il tempo, è un’invenzione, non sarebbe quel grado quel-che-È?

Voi capite che è assurdo conferire grado 100 alla Consapevolezza di Dio: Egli è quel che È.
Questo centro di coscienza è quel-che-È.
Un fiore è quel-che-È.
Vedete come è viziato il discorso di dare a Dio valore assoluto e a tutto il resto valore relativo?

Vedete come l’assurdo è nel distinguere tra relativo e assoluto?
E come la via di uscita da questo assurdo sia di rifiutarne l’approccio smettendo di ragionarci dietro e affidandosi invece all’esperienza.
E cosa dice l’esperienza, dello zazen, ad esempio?


Dal 2021 le domande che cercherò d’indagare sono queste:
– cosa ci lega al divenire?
– cosa diviene la vita feriale quando è sentita unitariamente?
– come evolvono le relazioni?
– come si dispiega l’archetipo del monaco?

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Nadia

Al monaco anziano.
Provo ad esprimere diversamente:
Se nell’esperienza meditativa, si riconosce quella vibrazione, più facilmente ci sarà modo di riagganciarla negli affacendamenti quotidiani.
Non colgo le logiche a cui fai riferimento.

Catia belacchi

Come Nadia, anche a me il ragionamento sembra un po’ macchinoso. A mio parere non penso che se prendo un fatto per quel che è non ci sia più sofferenza. La sofferenza posso accettarla come ciò che è in quel momento.
Se il divenire illusorio c’è per farmi prendere consapevolezza del mio sentire, le comprensioni sembrano passare sempre attraverso la sofferenza. È successo anche al FdU che pure era una coscienza estremamente evoluta.

Nadia Balducci

Capisco il ragionamento ma lo trovo macchinoso!
L’esperienza dello zazen produce silenzio di Sé, silenzio in cui poter agganciare quella vibrazione, consapevolezza, che permea l’universo.
Grazie!

uma

A Nadia.
Capisco l’osservazione.
Lo zazen è l’esperienza.
Questo ragionare è il cuneo che si inserisce nella mente.
Quando ti alzi da zazen devi trovare una mente che opera secondo altre logiche altrimenti ti ritrovi fratturata.

Natascia

Complicato per me esprimere in parole quel che vivo.
Sento che non è lontana da me l’esperienza del vivere Ciò che È.
È uno stato di “neutralità “, se così posso definirlo, ma già nell’attribuirgli una definizione, sento che ne ho alterato la natura.

Leonardo

Il problema sta nel considerare l’Assoluto come un massimo di cui il resto a confronto è parziale, non completo, appunto relativo.

Questo succede, per esempio quando dico: “questo oggetto è più grande di quello”. Che si significa “più grande”, “più piccolo”?
Sono delle categorie, è un giudizio, formulato dal soggetto. È il soggetto che ha la “capacità” mettere in relazione e dunque formulare dei giudizi: “questo è più grande di quello”, sono certo proprietà degli oggetti stessi, ma relazioni stabilite dal soggetto.

Finché c’è soggetto c’è possibilità di giudizio e, dunque, dualità.

Ma attenzione anche questa affermazione nasconde un dualismo che riposa sull’illusione del tempo. Ancora in quella affermazione stiamo dando sostanza al tempo perché ammettiamo un “prima” con soggetto e dualità e un “dopo” senza soggetto e senza dualità.

Ma se il tempo è un’illusione, come fa a esistere un “prima” e un “dopo”.

Ancora affidiamo l’uscita dall’illusione a ciò di cui dovremmo disilluderci: il tempo.

C’è una contraddizione insanabile.

Dunque, è sbagliato dire che ci attendono “n” vite per uscire dalla ruota dell’incarnazione.
Dunque, è sbagliato dire che io sono stato quella forma incarnativa e poi sono stata questa forma incarnativa.
È sbagliato dire io sono un certo grado relativo di sentire di contro a un grado assoluto di sentire.
Tutto si dà nella contemporaneità del non-tempo.
Tutto si dà nella simultaneità a-centrica.

Che cosa ci insegna lo Zazen? Il silenzio dell’esperienza.
Forse questa è l’ultima grande illusione: c’è ancora qualcosa da dire.
Quello che ci spaventa più di tutto in fondo, l’ultimo grande residuo di identità.

Credo che l’unica via di uscita reale sia il silenzio di sé, che lo zazen ce lo insegna in sommo grado.

Luca

L’esperienza dello zazen non si racconta si vive

Elena

Mi pare tutto chiaro.
Tutto è perfetto come è.
Eppure l’umano soffre, la carne stride, lo stomaco si contorce…e so di cosa parlo per averlo vissuto. Oggi non lo vivo più a quel grado e quindi mi resta la domanda: se vivo il “cio che è” svanisce lo stridio, la sofferenza?
O ancora la sofferenza è dettata unicamente dalla non accettazione?
Non saprei.
Ho visto corpi fisici avere tic (direi dovuti a “sfasature” dei diversi piani) e non so se sia possibile per chi è in quella fase accogliere il ciò che è. Intendo dire che l’accettazione del ció che è mi pare presupponga una consapevolezza evoluta.
Ma forse mi sto attorcigliando e mi fermo qui.

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