Gli inizi della pratica dello Zen [zq1]

Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.

Di seguito alcune parti del primo capitolo con evidenziati i passaggi più importanti: in seguito, con una frequenza variabile, pubblicherò altre parti limitate del libro.

[…] La maggior parte delle persone che vengono allo Zen Center non pensano più che una Cadillac risolverà la faccenda, ma l’illuminazione sì.
Abbiamo un nuovo giocattolo, un nuovo ‘se solo’. “Se solo potessi avere l’illuminazione allora sì, sarei felice”. “Se solo ne potessi ottenere un barlume piccolo piccolo allora sì, sarei felice”. Avvicinandoci a una pratica come lo Zen portiamo con noi la vecchia abitudine della ricerca dell’ottenimento (in questo caso, l’illuminazione), per acchiappare finalmente i giocattoli che ci sono scappati finora.

Tutta la nostra vita è imperniata su questo piccolo soggetto che cerca un oggetto al di fuori di sé. Ma, se partite da qualcosa di limitato, come sono il corpo e la mente, anche il qualcosa ricercato all’esterno diviene un oggetto limitato. C’è una cosa limitata in cerca di un’altra cosa limitata, e vi andate a cacciare sempre più nella stessa follia che ha creato il vostro disagio.

Per anni e anni abbiamo costruito una visione condizionata della vita. C’è un ‘io’ e c’è quella ‘cosa’ là fuori che o mi respinge o mi attrae. Impostiamo la vita sul tentativo di evitare ciò che ci ferisce o dispiace; dividiamo oggetti, persone e situazioni in piacevoli e dolorosi, evitando questi e inseguendo quelli. Tutti, senza eccezione, adottiamo questo comportamento.

Rimaniamo separati dalla vita: la scrutiamo, la analizziamo e la giudichiamo ponendoci in continuazione la domanda: “Che cosa ne ricaverò? Mi darà piacere o è meglio stare alla larga?”.
E così di seguito, dal mattino alla sera. Sotto le nostre piacevoli, amichevoli facciate si stende un forte disagio. Se scrostassi la vostra superficie vedrei guizzare all’impazzata paura, ansia e dolore. Li seppelliamo in molti modi: sotto montagne di cibo, di alcol, di lavoro e di programmi televisivi.

Siamo costantemente impegnati nel fare qualcosa per mascherare l’ansia esistenziale. Alcuni vivono così fino alla morte, e più gli anni passano peggio diventa. Ciò che non sembra poi tanto brutto a venticinque anni, diventa spaventoso a cinquanta. Conosciamo tutti persone che sono come morte, così chiuse nelle proprie concezioni ristrette che è doloroso per loro e per quanti li circondano.

La versatilità, l’elasticità e la gioia della vita sono scomparse. Questa sinistra fine aspetta tutti al varco, a meno che non ci risvegliamo alla necessità di lavorare alla nostra vita, alla necessità della pratica. Dobbiamo dissipare il miraggio di un ‘io’ separato dall’altro’. La pratica consiste nel colmare il fossato. Conosciamo la vita solo nel momento in cui noi e l’oggetto diventiamo uno.

L’illuminazione non è una cosa in più da ottenere: è l’assenza di un atteggiamento. Per tutta la vita inseguiamo qualcosa, perseguiamo uno scopo. L’illuminazione è l’abbandono di questo atteggiamento.
Parlarne serve a poco; ciò che importa è la pratica personale, che niente può sostituire. Leggere sull’argomento anche per mille anni non serve. Dobbiamo praticare: praticare con tutto l’impegno, per tutta la vita.

Il nostro vero bisogno è una vita naturale. Viviamo in modo così innaturale che praticare lo Zen, all’inizio, è estremamente difficile. Ma, una volta prodottosi il primo barlume che il problema non sta al di fuori di noi, ci siamo incamminati sul sentiero. Questo iniziale risveglio alla possibilità di una vita più aperta e più gioiosa, più di quanto abbiamo mai pensato, ci dà il desiderio di praticare.

Ci impegniamo in una disciplina come lo Zen per imparare a vivere in modo sano. Lo Zen ha mille anni, periodo in cui i difetti sono stati eliminati; non è facile, ma non dissennato. È pragmatico, molto realistico. Si occupa della vita quotidiana: come lavorare meglio, come allevare meglio i figli, come impostare rapporti migliori. Una pratica sana ed equilibrata deve produrre una vita più sana e soddisfacente. Vogliamo trovare il modo per lavorare con la follia radicale causata dalla nostra cecità.

Sedere (praticare zazen, ndr) bene richiede coraggio. Lo Zen non è per tutti, esige la disponibilità ad affrontare qualcosa che non è facile. Ma se ci impegniamo con pazienza e perseveranza, sotto la guida di un buon insegnante, a poco a poco la nostra vita si sistema, si equilibra.
Le emozioni perdono il loro potere tirannico.

Sedendoci, scopriamo che la prima cosa a cui lavorare è la nostra mente affaccendata e caotica. Siamo tutti presi in un modello di pensiero frenetico, e il primo problema che la pratica affronta sta nel renderlo più chiaro ed equilibrato. Con la mente chiara e bilanciata, non più dominata dagli oggetti, può prodursi un’apertura, per un attimo possiamo capire chi siamo davvero.

Sedere non è una tecnica a cui dedicare un anno o due per impadronircene. Si siede per tutta la vita, perché non c’è limite all’apertura disponibile agli esseri umani. Alla fine scopriamo di essere lo sfondo illimitato e sconfinato dell’universo, e il lavoro della nostra vita diventa quello di espanderci nell’immensità e di esprimerla.

Entrare sempre più in contatto con questa realtà porta compassione per gli altri e cambia la nostra vita. Viviamo diversamente, lavoriamo diversamente e ci rapportiamo diversamente agli altri. Lo Zen è lo studio di tutta una vita.
Non si tratta di sedere su un cuscino per trenta o quaranta minuti al giorno: tutta la vita deve diventare pratica, ventiquattr’ore al giorno.

Ci sono domande? Vorrei rispondere a problemi riguardanti il rapporto tra la pratica dello Zen e la vita quotidiana.

D. Potresti ampliare il punto del lasciar andare i pensieri che sorgono quando siamo in meditazione?

R. Non penso che possiamo ‘lasciar andare’, credo piuttosto che esauriamo semplicemente le cose. Forzando la mente a fare una certa cosa, ricadiamo immediatamente nel dualismo da cui stiamo cercando di liberarci.

Il modo migliore per lasciar andare è notare i pensieri che si affacciano e riconoscerli: ‘D’accordo, di nuovo questo pensiero’. Poi, senza giudicare, ritornare alla vivida esperienza del momento presente. Siate pazienti.

Può darsi che dobbiamo ripetere il procedimento migliaia di volte, ma il punto della pratica è ritornare ogni volta al presente: di nuovo, di nuovo e ancora di nuovo.
Non andate in cerca di luoghi meravigliosi in cui i pensieri non si producono. Poiché, di fatto, i pensieri non sono reali, a un certo punto si affievoliscono e diventano meno coercitivi.

Scopriremo che, vedendone l’irrealtà, tendono a scomparire per alcuni periodi. Col tempo avvizziscono da sé, mentre noi quasi non capiamo come sia successo. I pensieri sono autodifese. Nessuno, in fondo, vuole abbandonarli: costituiscono il nostro oggetto di attaccamento.
Il modo di percepirne l’irrealtà consiste nel lasciar scorrere il film. Dopo averlo visto cinquecento volte, qualunque film diventa mortalmente noioso.

I pensieri sono di due tipi. Non c’è niente di sbagliato in ciò che chiamo ‘pensiero tecnico‘, quello che usiamo per camminare fino all’angolo della strada, per cuocere una torta o risolvere un problema di fisica. È un buon uso della mente. Qui non c’entra la realtà o l’irrealtà: è così e basta.

Ma le opinioni, i giudizi, i ricordi, i sogni sul futuro… cioè il novanta per cento dei pensieri che ci vorticano in testa, non hanno alcuna realtà. Dalla nascita alla morte, a meno che non ci risvegliamo, sperperiamo la vita in questi pensieri.

L’aspetto raccapricciante della seduta (davvero raccapricciante, credetemi) è assistere a quello che avviene nella nostra testa. È un brutto colpo per chiunque. Ci scopriamo violenti, prevenuti ed egoisti. E siamo così perché il falso pensiero su cui si basa la vita condizionata ha prodotto questa modalità. L’uomo è fondamentalmente buono, amorevole e compassionevole, ma ci vuole un faticoso lavoro di scavo per dissotterrare il gioiello sepolto.

D. Hai detto che, col tempo, i su e giù e le difficoltà scemano per esaurirsi del tutto?

R. Non ho detto che non ci saranno più difficoltà ma che, di fronte a una difficoltà, non ci attacchiamo. Se nasce la rabbia, siamo arrabbiati per quel breve momento. Altri possono non accorgersene neppure, noi vediamo che è tutto lì. Non c’è presa sulla rabbia, la mente non ci gira attorno. Non pensate che la pratica ci trasformi in zombie. Al contrario, viviamo emozioni più genuine, siamo più sensibili verso gli altri. Ma non siamo più preda dei nostri stati interiori.

D. Come si colloca il lavoro in relazione alla pratica?

R. Il lavoro è parte essenziale dello Zen. Qualunque lavoro va fatto con tutto l’impegno e totale attenzione a quello che abbiamo sotto il naso. Se stiamo pulendo il forno, dovremmo farlo totalmente e, nello stesso tempo, essere consapevoli dei pensieri che si sovrappongono all’azione. “Odio pulire il forno. L’ammoniaca puzza. A chi piace raschiare qui dentro? Con tutta la mia istruzione, essere ridotti a questo!”. Pensieri inutili che non hanno nulla a che fare con la pulizia del forno.

Quando la mente se ne va, riportatela al lavoro. Questa è l’azione reale, il resto sono considerazioni supplementari. Lavorare vuol dire fare con cura ciò che va fatto in questo preciso momento, ma ben pochi lavorano così. Una pratica paziente renderà scorrevole anche il lavoro, portandoci a fare semplicemente ciò che va fatto.

Qualunque sia la vostra vita, trasformatela nella pratica.

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5 commenti su “Gli inizi della pratica dello Zen [zq1]”

  1. Due concetti vengono in rilievo.

    Quello che solo l’esperienza trasforma, cioè solo il sedersi in zz è in grado di produrre trasformazione.
    E quello del logoramento che agisce senza bisogno di alcuna pretesa ma semplicemente attraverso il lasciar accadere.

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  2. Ci sono passaggi che risuonano, non tanto nella prima parte, ma nella seconda quando si inizia a parlare della pratica.
    Piccole esperienze vissute nella pratica dello zz, come ad esempio:
    ” I pensieri sono autodifese. Nessuno, in fondo, vuole abbandonarli: costituiscono il nostro oggetto di attaccamento”.
    È così, praticando mi rendo conto che ciò di cui la mente ha più paura è il vuoto, l’assenza di un oggetto del pensiero, perché ha paura di sparire con i pensieri.
    Ma c’è qualcosa di più profondo oltre i pensieri in cui riconoscersi, ma lì la mente non può arrivare.

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  3. Concetti noti, ma che letti, mi danno modo di riconoscere o comunque di riportare l’attenzione su alcuni aspetti.
    E mi accorgo sempre più che niente è scontato, ogni volta, qualcosa di nuovo si rivela.

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