Divenire sensibili alla voce del deserto interiore, deserto di sé. Conoscere quell’orizzonte sterminato e monotono, la difficoltà di sostenerlo allo sguardo subendone lo scacco.
La cruna dell’ago di ogni monaco: come potrà essere attraversata dalla gomena dell’ingombro di sé?
Eppure un mondo vasto è lì, appena oltre sé, ma è solo per i fragili, solo per coloro che accettano il personale collasso delle pretese, delle speranze illusorie, delle narrazioni patetiche.
Si tratta di vedere, di ascoltare, di mettersi nei panni delle creature: secchi vuoti, concavità esistenziali. Non si tratta di coltivare questa o quella sensibilità, si tratta di divenire sensibili.
Questo è il Sentiero, ma fatico a farvelo comprendere.
Basta ascoltare, osservare, vuotare il secchio e dire: “Ci sono, a prescindere”.
Ma come è difficile da dire quel ‘a prescindere’, eppure di lì passa tutto, ogni resa.
Se la mente/identità non si vuota di sé, della propria preminenza, non sorgeranno altre sensibilità.
Se le lacrime della compassione non prenderanno il posto dell’orgoglio, se l’umiltà non sorgerà come comprensione e non solo come figlia della disfatta, se il cuore non sarà aperto all’enigma della vita e al rischio di perdere tutto, come potremo vibrare come tamburi percossi dall’Ineffabile?
Grazie!
“Non coltivare questa o quella sensibilità, ma divenire sensibili.”
Diventare vuoti di sé, per farci risuonare da piccoli insignificanti fatti e sfumature di fatti.
Innanzitutto la Via. Difficile da digerire per le identità che voglio essere sempre al centro. Occorre morire a se stessi e alle proprie pretese, da qui passa tutto. Lavoro non facile.
“L’umiltà che nasce come figlia della disfatta. .”
È così che avviene per me talvolta, ma non è conquista durevole perché non nasce come comprensione.
Grazie