Fonte. Busshō – La natura autentica porta la data del 14 ottobre 1241. È un sermone rivolto ai seguaci e ai praticanti della via raccolti nel monastero di Koshohorinji, immerso nei boschi del Giappone occidentale.
Il testo venne poi trascritto nella versione a noi giunta da Koun Ejo, discepolo e successore di Doghen, nel 1243, nel monastero di Eiheiji, situato nella stessa zona, ancor oggi affatto isolata rispetto alle grandi linee di comunicazione e ai grandi conglomerati urbani.
Lo stesso Doghen inserì poi il testo rivisto nella sua opera principale, Shoboghenzo – La custodia della visione della vera realtà. Si sente dire sovente dagli studiosi buddisti giapponesi che, fra gli scritti di Doghen a noi pervenuti, tre sono i più rappresentativi del suo modo d’intendere la via universale indicata da Buddha:
– Bendowa – Il cammino religioso,
– Ghenjokoan – Divenire l’essere,
– Busshō – La realtà autentica.
Sono classificazioni da prendere con molta cautela perché non si tratta di fare classifiche, volte a stabilire che un testo è più significativo o illuminante di un altro: tali graduatorie non si addicono ai testi religiosi. Però un motivo ci deve essere se, col passare del tempo, si è sedimentata la tradizione che quei tre scritti siano in qualche modo rappresentativi di tutta l’opera, senza con questo sminuire minimamente il valore del resto (anzi, si dice che sono rappresentativi proprio perché ci sono anche tutti gli altri, uno per uno).
Bendowa – Il cammino religioso[1], esprime a parole il fulcro della pratica religiosa, la via intesa come adesione a ogni momento della vita che trova espressione di sintesi ideale nella forma concreta della pratica di stare seduti in silenzio (zazen).
Ghenjokoan – Divenire l’essere[2], indica la realtà della vita quotidiana come trama della via insondabile: vivendo con semplicità la vita come via, seguendo concretamente la via come forma originaria della propria vita, la realtà si mostra come profonda evidenza del presente che si fa presente, oltre le contraddizioni e a loro sostegno.
Questo sermone, invece, parla direttamente del fondamento costitutivo di ogni cosa e del tutto: affronta il tema centrale del buddismo Mahayana e lo sviscera nel suo rapporto con la realtà come a noi appare essere. L’affermazione fondante della fede nel Mahayana è che la buddità, la natura di budda, è la vera e sola natura originaria di tutto ciò che è.
Budda, il risvegliato, è Budda perché ha percorso fino in fondo il cammino del risveglio alla realtà del fatto che tutto è forma dell’incontaminata inalterabile perfezione originaria: risveglio che prende suono nelle parole da Lui pronunciate: «Gli esseri animati e inanimati, tutti, nello stesso momento, diventano e sono la via perfetta».
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[…] Così Doghen esamina alcune delle testimonianze a proposito della natura di Budda che si trovano disseminate lungo il percorso storico del buddismo, a partire da Sakyamuni Budda fino ai suoi giorni. Questo excursus non segue la cronologia ma un filo logico interno all’esperienza religiosa dell’autore. Doghen ha presente le affermazioni più significative riguardo alla natura di Budda, e sa che alcune coincidono mentre altre appaiono completamente contraddittorie.
Lo sa lui, lo sanno i suoi ascoltatori contemporanei, lo sanno, almeno in parte, i suoi lettori giapponesi di formazione buddista. Noi invece, ignoriamo ogni riferimento culturale, ogni implicazione. Faccio un esempio: se volessimo prendere in esame il tema dell’amore come è compreso nella sensibilità religiosa cristiana, tema assolutamente fondamentale, non potremmo, credo che partire dal comandamento, doppio e unico nello stesso tempo, pronunciato da Gesù e che egli stesso trae dall’Antico Testamento: «Ama Dio con tutto te stesso, ama il prossimo tuo come te stesso». Inoltre Gesù dice che il vero segno di riconoscimento dell’essere suoi discepoli consiste nell’amarsi l’uno con l’altro.
Non potremmo peraltro ignorare che lo stesso Gesù afferma che per seguirlo è necessario odiare il proprio padre, la propria madre, i propri figli. Questo non può non interrogarci su cosa intendesse Gesù con la parola amore, su come dobbiamo comprenderla e metterla in atto. Non possiamo accontentarci di una comprensione pedissequa e asettica. Proseguendo nel nostro studio, ci imbatteremmo in sant’Agostino, che afferma: «Ama e fai ciò che vuoi».
Ci imbatteremmo nei mistici, per cui amore equivale a distacco e immersione in Dio, nei monaci di clausura, per cui amore si attua nella reclusione dal mondo, nei missionari, per cui amore si attua andando fra la gente a testimoniare il Vangelo, magari all’altro capo del mondo, nelle persone che intendono l’amore come gesto concreto di carità verso i bisognosi… tutti modi d’intendere l’amore pienamente legittimi dal punto di vista religioso, tutti sostenuti dal medesimo Vangelo e di esso rispettosi, e però spesso contraddittori, l’uno con l’altro. Tutto questo non costituisce problema dal punto di vista culturale, perché è parte della nostra esperienza storica e i richiami delle varie sensibilità e dei vari modi d’intendere sono per noi immediati: resta invece il problema religioso, del significato dell’amore e di come noi lo viviamo.
Invece nel caso del testo buddista, il problema è culturale prima di diventare religioso. Tutti i vari modi di dire la natura autentica io li sento qui per la prima volta, tutti insieme uno dopo l’altro, e rischio di fare una grande confusione. Manca completamente il background culturale che ha fatto da sfondo alla stesura del testo. Il problema non è quello di ricostruire quel background: anche ammesso che ciò sia possibile, ci vorrebbero anni e anni di studio, e sarebbe comunque qualcosa di posticcio.
Si tratta invece di aver coscienza di questa mancanza, e di aggirare il problema cercando di stabilire col testo un rapporto nuovo e diretto. Siamo in un certo senso facilitati in questo dal fatto che Doghen instaura, come vedremo, un rapporto del tutto originale con le affermazioni tradizionali. Infatti, mentre «l’idea che tutti gli esseri senzienti possiedono la natura di Budda e la possibilità di raggiungere la buddità è centrale in quasi tutte le scuole del Mahayana […] il modo di procedere di Doghen […] può essere considerato unico fra tutti.
Aderendo strettamente a un’interpretazione non dualistica, egli commenta i passaggi delle scritture Zen e di altre scuole buddiste che hanno a che fare con questo tema. Ciò che colpisce di più a proposito di questo commentario, è il modo in cui egli dà evidente priorità al significato religioso rispetto alla normale sintassi grammaticale. In non pochi casi, Doghen decide di leggere quei passaggi in maniera assai dubbia, e a volte addirittura impossibile, da un punto di vista grammaticale.
Ma lo fa con un preciso intento. Egli focalizza l’attenzione su quelle che gli appaiono come inadeguatezze nel modo tradizionale in cui i testi sono letti, e nello stesso tempo descrive chiaramente la propria comprensione e la propria rettifica di queste inadeguatezze, basandosi sulla propria esperienza religiosa del risveglio»[3]. Quindi il nostro essere a digiuno dei riferimenti tradizionali può facilitarci il compito, perché ci evita almeno il problema di doverci disfare dell’interpretazione letterale e sedimentata: ringraziamo di non avere nel nostro bagaglio culturale anche un catechismo buddista. Jiso Fozani
[1] Vedi Il cammino religioso (Bendowa), Marietti, 1989.
[2] Vedi Divenire l’essere, EDB, 1991.
[3] Dall’introduzione a una traduzione in inglese di Bussho a cura di Masao Abe e Norman Waddell, apparsa nella rivista Eastern Buddist nella seconda metà degli anni settanta.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Grazie!
Grazie
Grazie. Rileggerli sarà motivo di comprenderli insieme a te..
Grazie per questo ulteriore sforzo.Interessante la chiusa dell’introduzione di Jiso Forzani e il suo invito ad approcciare i testi in modo diretto, col sentire.
Grazie