La finalità didattica dei koan e di altri strumenti nella Via

(Da A. Tollini, Lo Zen, Einaudi 2012, pgg. 7-8) Anche a quel tempo, tra le critiche che per prime si sollevarono contro l’interpretazione dello Zen, sicuramente di grandissimo fascino, fornita da Suzuki, vi fu quella dello studioso cinese Hú Shi (1891-1962), figura di primo piano nel panorama filosofico cinese del tempo.

Il dibattito tra questi due grandissimi personaggi si svolse attorno al differente approccio nei confronti dell’interpretazione della tradizione Chán/Zen.
Da una parte, Suzuki forniva una visione che potremmo definire “trascendentale” o mitopoietica del Chán/ Zen sostenendo che esso trascende la comprensione umana e si situa in una zona non raggiungibile da una analisi razionale e intellettuale.

Questo approccio astorico insiste sulla caratteristica d’irrazionalità, d’intuitività e di atipicità del Chán/Zen, talché solo un linguaggio irrazionale come quello del koan è adeguato a darne una descrizione, o a fornirne una via di accesso. Per il resto, la lingua convenzionale e l’approccio intellettuale non possono far altro che mancare il segno.

A questa posizione che ha affascinato l’Occidente e a lungo ha dominato la scena, Hú Shì risponde sostenendo che il Chán va prima di tutto inquadrato nella sua cornice storica, cioè come parte integrante della storia del Buddhismo e del pensiero cinese e solo in questa prospettiva può essere pienamente compreso.

Il Chán non è né irrazionale, né illogico. A sostegno di questa tesi, pone il problema della lingua del gōng’àn , in giapponese koan, che interpreta come un metodo pedagogico sviluppato nella Cina antica per portare i praticanti alla comprensione. E pur vero che i gōng’àn usano una lingua particolare, ma il metodo è tutt’altro che irrazionale, articolandosi in tre fasi distinte:


1) non insegnare spiegando, ma usando un linguaggio oscuro o indiretto in modo che il praticante sia costretto a cercare da se stesso;

2) per fare questo i maestri cinesi antichi escogitarono una serie di strategie linguistiche particolari e di linguaggi non verbali come gesti, colpi e grida;

3) infine, questo processo costringeva il praticante ad andare in cerca di maestri che potessero dare una risposta ai loro quesiti.

Questo sistema pedagogico era molto efficace perché stimolava i praticanti a cercare le risposte da loro stessi, con sforzo e riflessione. Quindi si tratta di un percorso tutt’altro che irrazionale ma programmato e funzionale al risultato che si voleva ottenere. In altre parole, l’irrazionalità era voluta e organizzata, e non era intrinseca al Chán ma era strategica.

Prosegue per i loggati

Pubblico questo brano dal bel libro di Tollini perché mi suscita molte riflessioni:
sulla pedagogia e sulla didattica che ho sviluppato nel corso dell’insegnamento, su certe scene difficili quando uscivo dai canoni di comportamento condivisi.

  1. L’eccesso di chiarezza e di messa a disposizione di strumenti di formazione
    Avrei potuto fornire meno strumenti e minore linearità e chiarezza di esposizione dei temi?
    Avrei dovuto lasciare le persone più a se stesse, fornendogli meno supporto, meno accompagnamento, meno attività laboratoriali, minore profusione di testi?
    Non lo so, non ho risposta: ho fatto quello che vedevo e che la mia indole ad aiutare mi conduceva a fare, ma non è detto che sia stato il meglio, spesso penso di non aver stimolato abbastanza le risorse interiori delle persone.
  2. Insegnamenti non conformi
    Ho in mente la scena in cui una persona, a un intensivo, non aveva portato il tovagliolo di stoffa; gli era stato fornito un tovagliolo di carta, ma io avevo obbiettato dicendo che se non aveva di che pulirsi poteva usare la manica della maglia. Samuele, e non solo, strabuzzarono gli occhi.
    Ecco questo era un modo d’insegnare che a volte ho cercato di attuare non senza disagi profondi dopo averlo attuato.
Sottoscrivi
Notificami
guest

2 Commenti
Newest
Oldest Most Voted
Inline Feedbacks
Vedi tutti commenti
Leonardo P.

Non so se consideri il silenzio come parte del secondo gruppo (“insegnamenti non conformi”), ma sento che molto da quello io ho appreso.

Silenzio che non significa, il negarsi alla relazione, piuttosto indicare un’altra relazione possibile, spostandola sul sentire.

Certo in questo caso è facile il raccontarsela, ma poi i fatti e l’esperienza corrono in auto per smentire o confermare quanto elaborato nella comprensione.

Naturalmente considero il silenzio strumento efficace ma che va integrato con gli altri due.

Ultima modifica 2 anni fa di Leonardo P.
uma

A Leonardo Non essendo mai stato il Sentiero una comunità residenziale, la possibilità di utilizzare il silenzio nella formazione è stata relativa: quando incontravo le persone avevo bisogno dell’officina. certo, anche il silenzio è officina, ma devi avere tempo. Prima d’iniziare a insegnare, durante la mia formazione nello zen, partecipavo a incontri/intensivi tenuti nell’ottica del dialogo interreligioso cristiano-buddhista con Luciano Mazzocchi e alcuni monaci zen. Oltre allo zazen e alle sessioni c’erano tempi di silenzio: lì ho imparato a detestare quei momenti. Lungo sarebbe spiegare perché. Non ho mai investito sul silenzio, buono, buonissimo per i neofiti, ma di dubbia utilità in seguito. Quando viene dal mondo e sei sceccherato, vuoi silenzio. Ma questa non è mai stata la mia prospettiva, io non volevo far distendere le persone che venivano dal mondo, le volevo mandare in crisi.

2
0
Vuoi commentare?x