La vita monastica nel medioevo8: i voti

Il capitolo 58 della regola ci dice come bisogna accogliere coloro che chiedono di entrare in monastero. Si tratta di un vero e proprio psicodramma. II candidato è accolto male; non gli si accorda una «entrata facile», lo si fa attendere alla porta per «4 o 5 giorni», lo si ricopre d’ingiurie (bisogna credere che le vocazioni non erano rare all’epoca e che esse erano solide).

Se «il nuovo venuto alla vita religiosa» perseverava nella sua domanda lo si alloggiava per alcuni giorni nei locali degli ospiti. Di là egli passa nei locali dei monaci dove, sotto la direzione di un «anziano capace di guadagnare le anime», apprende «le durezze e le asperità attraverso le quali si va a Dio» (dura et aspera per quae itur ad Deum, c. 58,17).

Se egli si mostra «sollecito per l’opera di Dio, per l’obbedienza, per le prove di umiltà» (obprobria), dopo due mesi, se persiste ancora nelle sue intenzioni di «stabilità», gli si leggerà la regola integralmente e gli si dirà: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare. Se puoi osservarla, entra. Ma se non puoi, sei libero di partire». Se egli persiste, lo si riconduce nel noviziato dove egli studierà, mediterà, mangerà e dormirà. Ancora si proverà la sua pazienza per sei mesi. Gli si rilegge la regola. Se egli persiste sempre nel suo proposito il suo tirocinio è prolungato di quattro mesi. «Gli si rileggerà ancora una volta la stessa regola».

«E se, dopo aver nel suo profondo riflettuto e deciso (Benedetto non crede ai colpi di testa e agli impulsi irriflessi: egli accetta solo degli uomini capaci di riflettere) prometterà di osservarne tutte le prescrizioni e di eseguire tutti gli ordini ricevuti, allora soltanto venga accolto nella comunità».

Ma egli deve sapere che non gli sarà più permesso di ritornare sulla sua decisione e di «liberare il suo collo dal giogo della regola» (collum excutere de sub iugo regulae, c. 58, 25), che la decisione presa «dopo una riflessione così prolungata» è presa una volta per sempre, che un voto pronunciato liberamente (poiché fino all’ultimo momento il novizio ha avuto la possibilità di rifiutare, excusare, c. 58, 36) impegna come un giuramento.

L’ammissione nella comunità viene realizzata dalla «professione» monastica che stringe un contratto, in forma corretta e precisa, con tutte le garanzie del diritto, tra la comunità e il professo. Anche se nello stesso capitolo (58, 62) viene detto «che egli non potrà più disporre neppure del proprio corpo», siamo lontani, come si vede, dalla schiavitù di cui alcuni parlano (del resto il mondo moderno conosce delle forme d’impegno ideologico, altrettanto tenaci, ma molto meno riflesse e soprattutto infinitamente meno sollecite dei mezzi).

Voto di stabilità, caratteristico della vita benedettina, che è una reazione contro i costumi degli erranti (i girovaghi, «sempre in cammino, mai tranquilli», c. 1, 30). Voto di conversione dei costumi o conversatio, cioè voto di cambiare la propria vita e di praticare una vita autenticamente religiosa. Voto di obbedienza.

Il novizio si prosterna «ai piedi di ciascuno perché preghi per lui». A partire da questo momento egli sarà annoverato tra i membri della comunità. Dimessi i suoi effetti personali – che saranno conservati nel vestiario «perché li possa ritrovare un giorno se sotto l’istigazione del diavolo egli deciderà di abbandonare il monastero»: San Benedetto non si fa certo illusioni sugli uomini – egli riveste i vestiti del suo nuovo stato.

Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.

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2 commenti su “La vita monastica nel medioevo8: i voti”

  1. Tanto rispetto per questi monaci che erano capaci di perseverare nella loro intenzione con un impegno per noi inconcepibile.

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