La vita monastica nel medioevo 14: le bevande

II vino è necessario alla celebrazione della messa: i monaci piantarono dunque le viti dovunque poterono sperare che i grappoli d’uva sarebbero maturati. Io ho già raccontato nella Vie quotidienne des religieux du Xe au XVe siecle (Hachette, 1978) di quanti meravigliosi vigneti noi siamo loro debitori.

D’altro canto il vino era una bevanda prestigiosa in un’epoca in cui si beveva solamente dell’acqua mista a succo di frutta o a decotti di radici e quando la cervogia era ben lontana dall’aver raggiunto la limpida perfezione della birra.

Inoltre Gesù aveva trasformato l’acqua delle anfore in «buon vino» e questo per degli invitati già «brilli» (Gv 2, 1-10); Paolo aveva scritto: «smetti di bere solo acqua» (1 Tm 5, 23) e San Benedetto, considerando la debolezza dei monaci meno forti, autorizza anch’egli a bere il vino. Non «ad satietatem» ma con misura. I monaci si guardavano bene dal dimenticare argomenti così augusti.

In mancanza di vino i monaci si contentavano della birra. Dire che lo facevano allegramente sarebbe troppo. La birra era una bevanda ignobile nel senso originario del termine al punto che certi consuetudinari lasciavano la scelta tra essa e l’acqua nei giorni di Quaresima. Altri dicono che se ne può bere ad necessitatem, quanto ce n’è bisogno (nozione vaga) e non ad ebrietatem. Ci mancherebbe altro!

Tuttavia bisogna tener conto che la cervesia, non era la birra chiara e fatta col luppolo che noi conosciamo. Era un decotto denso, scuro, fermentato ma di breve conservazione, al massimo alcune settimane. La bevanda che ci è ormai familiare è una invenzione monastica del IX-X secolo e più precisamente una scoperta dei benedettini fiamminghi poiché tutte le parole che la concernono, birra, malto, luppolo, sono di origine fiamminga. Ancora oggi è un abate benedettino fiammingo, S. Arnoldo o Arnolfo (XI secolo), il patrono dei birrai.

Egli aveva osservato che i bevitori di cervesìa lupulina erano meno colpiti dalle epidemie dei bevitori d’acqua e per incoraggiare i suoi concittadini a preferire la prima di queste due bevande, aveva rimescolato la birra nel tino con la sua croce di abate.

Così la fabbricazione della birra — birra forte, patio fortis per i padri e birra leggera, patio debilis destinata alle monache, ai fratelli e ai poveri — restò per lungo tempo appannaggio dei monasteri così come l’idromelo (meda) e il cedro (sicera) che i monaci fecero conoscere alla Bretagna e alla Normandia e di là all’Inghilterra.

I monaci sono anche all’origine di numerosi liquori e acquaviti. Il fatto si spiega facilmente: essi furono i primi e per lunghi secoli i soli a possedere un alambicco e a saperlo utilizzare; i soli ad avere delle riserve di vino, i soli ad avere le capacità finanziarie per lasciare invecchiare i prodotti; i soli infine a contare tra le loro file un farmacista. Poiché, non dimentichiamolo, essi elaborano e mescolano accuratamente e in tranquillità di coscienza dei cordiali, delle acqueviti nel senso proprio del termine (i termini stessi di acquavite e di whisky ne sono testimonianza) a metà strada tra l’alchimia e la farmaceutica.

Da qui il ballo dei liquori monastici che va dalla trappista di Orval all’eia d’arquebusade di Aiguebelle, dallo spirito di Fontgombault al sénancol di Sénanque, senza dimenticare i prodotti dei severi camaldolesi e dei monaci di Casamari. Solo il Bénédictine è laico; ma esso è fabbricato nell’antica abbazia di Fécamp.

Come tutti gli uomini del Medioevo i monaci avevano un gusto spiccato per le spezie e le erbe aromatiche. Essi bevevano raramente l’acqua, l’abbiamo già detto, ma anche la birra e il vino senza avervi fatto prima macerare del timo, della cannella, dell’anice, del rosmarino, del coriandolo, del muschio, dello zenzero polverizzato e molte altre cose ancora, ivi compreso il miele. Ne risultava, secondo gli ingredienti, un rosato, un idromele piccante, gli antenati del vermouth, della zubrowka e del drambuie. Alcune birre belghe (la krieklambic, alla ciliegia) o inglesi (la gingerale, allo zenzero) sono dei residui di quest’uso.

Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.

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