Copiare (scribere) manoscritti sembra, all’immaginazione popolare di oggi, essere stata l’attività per eccellenza dei monaci. E benché, come abbiamo visto, essi non si siano limitati a questo solo genere di lavoro (tutt’altro!), bisogna riconoscere che questo lavoro ebbe sempre una grande importanza spirituale ai loro occhi.
E questa importanza non fece che crescere fino al punto di divenire, a poco a poco, il tipo stesso del lavoro monastico. Sapevano scrivere tutti i monaci? È permesso crederlo, ma alcuni documenti tendono a provare che non era così nei primi secoli. Tutti avevano una scrittura chiara e occhi buoni (gli occhiali chiamati bésicles dalla parola latina berylus che indicava la pietra semipreziosa usata per farli, appariranno solo nel XIII secolo) per scrivere, un’intera giornata, in una cella non sempre ben illuminata, o nello scriptorium, alla luce vacillante di qualche «candela di cotone»?
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Tutto ciò che noi sappiamo è che un buon numero di copisti, per quanto pio sembrasse loro questo lavoro, si lamentavano della fatica che era loro imposta. E gli innumerevoli errori disseminati nei manoscritti ci confermano che l’attenzione dei copisti non era sempre perfetta.
Il rendimento era da 3 a 5-6 folii in-quarto, al giorno. Era necessario un anno per ricopiare la Bibbia. Un buon copista trascriveva 40, al massimo 50 opere nella sua vita. Tutto ciò che ci è giunto dall’antichità ci è stato trasmesso dal lavoro dei monaci e solo da esso. Inoltre, solitamente non vengono contati i manoscritti che sono stati distrutti nel corso dei secoli dall’incuria, l’ignoranza o la cattiveria degli uomini, dalle guerre e dalle rivoluzioni: solo a Cluny i calvinisti ne bruciarono più di 1800…
Molto presto il lavoro venne razionalizzato e specializzato: accanto ai copisti strettamente detti, fecero la loro comparsa i tagliatori e conciatori di pelli (forbitores), i preparatori di pergamene (pergamentarii)], i tracciatori di linee, i correttori e collazionatori, i miniatori, i rilegatori. Un testo segnala anche l’esistenza di un monaco incaricato di vigilare in modo particolare alla punteggiatura.
Il copista dispone di penne d’oca o di cigno di diverse taglie, di creta o di pietra di pomice (pumices), come abrasivo, di due cornua o cornetti che contenevano gli inchiostri, rosso (rubrica) e nero. L’inchiostro (dal basso latino encautum, variante di encaustum, «encausto»), era fatto con il succo del cavolo o del noce di galla, di copparosa (solfato di rame, chiamato in latino cuprirosa) e di gomma araba, il tutto era cotto al fuoco in birra o vino.
Il freddo poteva essere così intenso nello scriptorium o nella cella del copista che questi era autorizzato a recarsi nel locale riscaldato, ma come abbiamo visto non sempre c’era, altrimenti nella cucina non per riscaldare le sue dita rattrappite, ma per liquefare l’inchiostro…
In queste condizioni ci si immagina facilmente quanto i libri erano un prodotto raro e prezioso. Vengono citate con ammirazione le biblioteche monastiche che contenevano 1.000 o 2.000 volumi, ma erano una eccezione. La maggior parte non ne aveva che 300 o 400. Erano così rari che a volte venivano legati con una catena. Evidentemente essi non venivano prestati volentieri, tanto più che i prestiti erano a lunga scadenza: il termine di 10 o 20 anni non era raro. Già a quest’epoca un libro prestato — in principio per farne una copia — era spesso un libro perduto.
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In caso d’incendio o di saccheggio a opera della soldatesca, sono i libri che bisogna salvare prima di ogni altra cosa. Minacciati dai barbari, i monaci di Montecassino portarono con sé la regola (e diciamolo pure le misure delle razioni di pane e di vino), ma abbandonarono il corpo del loro fondatore.
I monaci leggevano molto? Come sempre quando si ha a che fare con gli uomini, bisogna rispondere che certamente un piccolo gruppo leggeva molto, mentre altri niente affatto. La media si contentava di ruminare uno o due libri all’anno. Alcuni consuetudinari ci informano che se un fratello non aveva letto nel giro dell’anno il libro che gli era stato affidato, doveva chiedere perdono al capitolo delle colpe.
Non sempre, dunque, c’era un grande amore per la lettura. San Benedetto lo riconosce quando scrive: «Anche di domenica tutti attendano alla lettura… A chi, poi, è tanto negligente e pigro da non volere o non sapere dedicarsi allo studio o alla lettura, si dia da fare un lavoro perché non stia in ozio» (c. 48, 51- 56). E troviamo anche scritto che i religiosi che frequentavano la biblioteca non dovevano tenere la testa interamente ricoperta dal cappuccio, perché si potesse vedere «se sonnecchiavano invece di dedicarsi alla lettura».
Zelanti o «negligenti» i monaci per forza di cose non leggevano molto. Ma leggevano con calma gustando ogni frase dell’opera, anzi quasi ogni parola, sforzandosi di scoprirvi la minima intenzione dell’autore e di estrarne «il midollo di sostanza». Non sono certo che il nostro modo «affrettato» di leggere valga di più.
Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.
Certo che dobbiamo a loro tutta la cultura classica e cristiana, che ci è arrivata a rotta. Essere grati non è sufficiente.
ricordiamo che alcuni scriptoria erano vere e proprie celle astronomiche per catturare con la disposizione del locale e delle finestre fino all’ultimo raggio di sole. Il monastero di Fonte Avellana ne è un esempio.