La disciplina è la capacità di tornare all’essenziale del proprio processo esistenziale: se in me scatta il meccanismo dell’abbandonato, bisogna che lo veda mentre accade e che sappia interpretarlo per quel che è.
Se mi identifico, sono dietro a un mare di emozioni e di pensieri che mi designano come vittima di chissà quali carnefici. Se vedo l’onda identificativa nella sua componente emozionale e concettuale mentre sale, la posso disconnettere ricordandomi che non sono affatto vittima e che nella mia vita non c’è stato alcun carnefice.
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Attraverso l’interpretazione relativizzo l’onda emotivo/concettuale che, se non alimentata di attenzione e credibilità, finisce per smorzarsi. Condurre questa operazione richiede consapevolezza, presenza lucida sul processo che si innesca: quella lucidità è possibile solo attraverso l’esercizio. Rimanere lucidi durante il montare delle emozioni non è facile, ma l’allenamento che deriva da una pratica regolare, attuata anche decine di volte al giorno, aiuta enormemente.
Il superamento della consapevolezza attraverso l’abbandono
La pratica della disconnessione, da qualunque processo interiore avvenga, nel tempo diviene un automatismo. Quando questa pratica si è radicata (di questo parleremo nel secondo capitolo), si aprono enormi spazi d’esistenza e grande immediatezza nell’esprimere e nel vivere.
La consapevolezza è componente di un processo basato ancora sulla frammentazione dove coscienza e identità marcano ancora una asincronicità, ma questo non dura per sempre. Lungo il cammino a un certo punto l’identità diviene fluido strumento del sentire e la realtà del vivere affluisce liberamente illuminata dalla leggerezza, dall’immediatezza, dal gioco e, infine, dall’amore.
L’osservatore consapevole lascia il campo alla manifestazione diretta, all’essere quel che è senza mediazione e senza controllo. La consapevolezza stessa, nell’atto contemplativo, viene trascesa.
Cosa fa sì che si amplifichino in un individuo le condizioni per il vuoto, per l’accogliere, per l’indiviso?
“Amplifichino” credo non sia il termine adatto perché trasmette l’idea che si possa accelerare il cammino attraverso qualche espediente. Noi impariamo solo attraverso le esperienze e non c’è possibilità di accelerare se non nella mente dei venditori di fumo.
Tutti gli umani, tutti gli esseri di qualunque natura ed evoluzione siano, conducono esperienze e in virtù di ciò che sperimentano subiscono una trasformazione. Tutti, comunque, qualsiasi sia il loro grado di consapevolezza, indipendentemente da questa.
A cosa serve allora il coltivare la consapevolezza e la via interiore/spirituale? A transitare attraverso le esperienze con un minor tasso di dolore, non a fare prima. Prima, dopo, espressioni molto relative che rimandano al tempo e alla sua soggettività: sarebbe un discorso lungo.
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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.
Rilettura sempre utile… grazie.