«Il tutto (issai) è il tutto che vive (shujo), ogni cosa (shitsu) che è (u) è natura autentica (bussho). Ciò che è perfetto (nyorai) risiede perenne (jo ju), è niente (mu), è ente (u), è mutevolezza (hen yaku)». (Traduzione Mazzocchi-Forzani)
Lettura convenzionale dello stesso brano: «La totalità (issai) degli esseri viventi (shujo), tutti (shitsu) hanno (u) la natura di budda (bussho); il Perfetto (nyorai) permane sempre (jo ju), non (mu) ha (u) mutamento (hen yaku)».*
Il commento di Jiso a Bussho 1:
– La sua chiave di lettura è in quell’ideogramma u, inteso come essere e non come avere: tutto, ogni cosa è natura autentica. La natura autentica non è qualcosa che si ha, un bene che si possiede: è intrinseca all’essere, è l’essere che esprime ed esaurisce totalmente la sua essenza di essere.
– Se applichiamo la categoria dell’avere alla natura autentica, ne facciamo un oggetto, un qualche cosa. Ma allora, che bisogno c’è di dire natura autentica? Non basta dire essere, senza bisogno di ulteriori specificazioni? Oppure c’è un essere che è più vero essere del semplice essere? C’è una natura autentica e una natura inautentica, una natura buddica e una non buddica?
[→uma] Considerazioni di uma, niente più che appunti.
“Ogni cosa che è, è natura autentica“. Ogni cosa Essente è natura autentica.
“Ogni cosa è“, nel Sentiero diremmo: ogni cosa è compresa nella sua essenza quando è contemplata.
“È natura autentica“: non “ha” natura autentica, lo è. Questa è un’esperienza chiara nella contemplazione: non esistono le cose che posseggono una loro natura autentica (una forma con una essenza), esiste la natura autentica di cui le cose sono la veste (una essenza che appare in una forma).
Questa interpretazione pone però un problema evidenziato nel seguente brano CF77 (online dal 24.8) problema chiarissimo al contemplante e questa è la ragione di queste considerazioni altrimenti prive di senso, c’è infatti una questione reale alla luce dell’esperienza: la contemplazione unitaria, il frutto della sua esperienza che qui cerchiamo di ridurre in concetti, non distingue tra vivente e non vivente, tra animato e inanimato, questo perché, in realtà, il non animato vive perché è sentito: il centro della questione non è nel dualismo vivente/non vivente, la sintesi è operata dal fatto che la contemplazione “sente” il reale e lo sente unitariamente oltre ogni proprietà materica o vibratoria.
Ciò che è sentito è natura autentica, quando si sente si è immersi nella natura autentica, qualunque cosa si senta: è l’atto del sentire che catapulta nella natura autentica, non le qualità del sentito.
Non c’è materia akasica che non faccia parte della collana di sentire di una individualità; nel piano akasico non esiste altra materia. Dove può, allora, esistere un mondo che non sente, ma è sentito? Nei piani della percezione, e solo li; perché se la coscienza cosmica è formata unicamente da tutti i sentire individuali, in essa non esiste altro che sia al di fuori di questi. È solo «sentire». Dunque, nei mondi della percezione vi sono delle cose che non sentono, e tuttavia sono sentite. E come, queste cose, entrano a far parte della coscienza cosmica? Attraverso il sentire degli individui, i vari sentire individuali, chiaramente. (CF77, Francois)
Allora possiamo assimilare la “natura autentica” al sentire? E a quale grado di sentire? Tutti gli Essenti sono sentire e dunque sono natura autentica? Un abito, una montagna, un fiume non sono sentire, possiedono una natura autentica?
La natura di un abito, di una montagna, di un fiume è ciò-che-è. Allo sguardo contemplativo un abito, una montagna, un fiume appaiono come ciò-che-è, come tali vengono accolti aldilà di ogni discriminazione.
Esiste la natura autentica di un Essente/sentire – di un Centro di coscienza o di sensibilità – e la natura autentica delle cose inanimate? Conta la differenza tra le due? O conta, invece, la mia non discriminazione rispetto alle qualità e manifestazione di entrambe?
Conta, soprattutto, il piano dal quale percepisco entrambe: nella contemplazione, dal piano del sentire. Se fosse possibile contemplare dal piano mentale, le due nature sarebbero qualificate come molto differenti, ma il privilegiare il sentire rispetto al pensare ci fa compiere un balzo radicale.
Ma non c’è solo questo: l’abito che indosso, di colore nero, colore in natura non esistente ma estratto dai miei sensi da una vibrazione, è da me percepito e dunque rientra nella gamma di ciò che io sento, si amalgama al mio sentire, ne diviene parte in virtù del processo della percezione e dell’assimilazione al sentire.
L’Essente che chiamiamo uma è anche il suo abito, come è la sua barba e le sue qualità e non qualità: nel definire la natura autentica di uma puoi prescindere dalla forma che questa prende nel tempo? Certo che puoi prescindere, perché la natura autentica è il sentire autentico, peccato però che questa espressione non significhi niente.
Non c’è un sentire autentico, non nel divenire: tutti i gradi di sentire sono autentici e nessuno lo è in quanto parziale e relativo. Tutto il sentire nel divenire è illusorio.
Esiste però il sentire non vincolato/rivolto al divenire, quello non è illusorio, quello è autentico, è la natura autentica.
Ma quello, eterno e immutabile, non è avulso dal divenire, lo contiene totalmente. La natura autentica di uma non è una condizione sublime e spirituale: è una condizione unitaria dove il sentire autentico e unitario contiene in sé ogni grado di sentire e ogni esperienza che quel sentire ha costituito. In quel sentire autentico vivono la barba e l’abito di uma, il secondo sicuramente inanimato.
Ecco che la natura autentica non è la condizione originaria, spirituale, ideale, che ha dato luogo alla limitatezza della incarnazione: essa è la complessità del sentire unitario che in sé tutto contiene. Il sentire unitario è figlio di Essere e divenire e non esisterebbe senza entrambi.
Allora la natura unitaria non è propria del vivente ma è la condizione del sentire che in sé contiene il vivente e il non vivente, l’animato e l’inanimato, il senziente e il non senziente, perché il sentire è frutto delle esperienze e queste avvengono anche attraverso l’inanimato e l’illusorio.
Ribadisco: natura autentica e sentire unitario coincidono e superano ogni dualismo. [/uma]
– Il tutto è il tutto che vive: questo è il vero significato di tutti gli esseri viventi.
[→uma] Il tutto è l’Essere che sente, diremmo nel Sentiero. [/uma]
– È perenne, perché il tempo non lo altera. È mutevole, perché si estrinseca nel tempo. Ciò che è perfetto risiede perenne, è niente, è ente, è mutevolezza.
[→uma] È Essere e divenire ma non come dualismo, come sintesi unitaria dove Essere è l’Uno che contiene i molti.
Alla percezione appare l’illusione di un Essere che diviene: il contemplante sente la natura di Essere a prescindere. [/uma]
– Chiamo io l’essere che è la mia pelle, carne, ossa, midollo; chiamo tu l’essere che è la tua pelle, carne, ossa, midollo. Ma la natura autentica non ha nulla cui dare dell’io e del tu, è fino in fondo se stessa essendo ogni pelle, carne, ossa, midollo. (Questo afferma Jiso)
Questo dice Dogen: Ogni cosa che è, una per una, dice il tutto che vive. Nell’adesso della verità, l’interno e l’esterno del tutto che vive è ogni cosa che è della natura autentica. Ciò non è solo trasmettere pelle, carne, ossa, midollo; ma è anche che tu diviene io che è pelle, carne, ossa, midollo.
[→uma] La natura autentica è oltre io/tu, la sua contemplazione non è contemplazione della mia natura autentica, della tua natura autentica, è contemplazione di ciò che precede me e te, che è oltre me e te, che informa me e te ma non si riduce a noi. Contemplandola il confine tra noi muore.
Però: pur essendo la natura autentica (C) oltre la mia e la tua soggettività, essa è anche te e me. Essendo essenza unitaria (C), contiene il sentire mio (A) e tuo (B) in virtù del principio delle fusioni: A+B=C.
Questo per riaffermare che l’Unità non è una condizione superiore e avulsa dalla molteplicità, l’Unità è anche molteplicità e senza di essa non sarebbe perché mancherebbe di una componente.
Infatti il sentire unitario contiene in sé ogni grado del sentire relativo ed è unitario proprio perché contiene il relativo e lo supera: infatti C non è solo la risultante di A e B, C è un’altra dimensione di sentire, non il risultato di una sommatoria.
Nella contemplazione noi possiamo investigare tutto questo: A come B, e certamente anche C. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
Grazie. Commento importante e complesso