Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
[→uma] Questo materiale è finalizzato alla formazione dei monaci del Sentiero contemplativo e non ha altra finalità. Il curatore interviene per interpretare Dogen alla luce delle comprensioni e interpretazioni proprie del Sentiero e non è mosso da alcuna intenzione esegetica. [/uma]
❓ 4 «Sia la scuola Tendai31 che la scuola Kegon32, ora molto diffuse in Giappone, sono la radice dell’insegnamento di Śākyamuni. Inoltre la scuola Shingon33 asserisce che tutto il vero modo di essere è stato realmente, concretamente trasmesso dal grande maestro Birushana34 al suo discepolo Fugen35. La sostanza di quell’insegnamento è: essendo lo spirito e il corpo, così come sono, il modo di esistere dell’essere innato, senza bisogno di una lunga pratica o di altro, qui, proprio ora, questo spirito e questo corpo, così come sono, manifestano il modo di essere innato. In questo consiste il nocciolo definitivo dell’insegnamento di Śākyamuni.
Alla luce di ciò, la pratica dello zazen che tu ora insegni, che cosa può avere di superiore alla altre? E ancora: perché tu esorti a praticare solamente lo zazen, trascurando gli insegnamenti della scuola Shingon e delle altre scuole?»
31 La scuola giapponese Tendai dall’VIII secolo è una filiazione della cinese Tiantai, “Terrazze sul Cielo” dal nome dei monti su cui fu fondato il suo primo monastero. Dōgen iniziò il suo percorso religioso presso la scuola Tendai dove fu ordinato e studiò e praticò per 3 anni.
32 La scuola Kegon dall’VIII secolo è filiazione giapponese della cinese Huayan. Prende il nome dall’Avataṃsaka sūtra, in cinese Huayan jing e in giapponese Kegon kyō, testo base di quella scuola.
33 Dal IX secolo filiazione giapponese della cinese Zhenyan. Prende il nome da una delle traduzioni cinesi del termine sanscrito mantra, tradotto appunto zhenyan, letteralmente “vera parola”. È una scuola tantrico-esoterica, l’unica linea sopravvissuta del Vajrayāna estremo orientale.
34 Traslitterazione giapponese del nome del buddha Vairocana che – sempre in giapponese – è tradotto Dianichi Nyorai. Il buddha Vairocana, o Buddha grande Sole, è una delle figure centrali del buddismo vajrayāna.
35 Traduzione giapponese del nome del bodhisattva Samantabhadra, nel buddismo vajrayāna chiamato anche Vajrasattva (in giapponese Kongōsatta).
Risposta «È errato a proposito degli insegnamenti scritti negli antichi testi, considerare quale sia superiore o inferiore, superficiale o profondo. Questa è una cosa importante. Ancor più importante è mettere in pratica realmente il contenuto dei testi antichi senza fare paragoni tra le parole, gli insegnamenti in essi scritti. Per quanto profonda una dottrina possa essere, non ha alcun valore se non è veramente messa in pratica; per quanto superficiale una dottrina possa essere, se davvero viene messa in pratica è un insegnamento profondo.
Sin dal lontano passato vi sono state persone che hanno compreso chiaramente la modalità di essere del vero sé vedendo sbocciare dei fiori di pesco, udendo il suono del saltellio dell’acqua del torrente. Altri ancora hanno appreso a fondo il proprio fondamentale vero modo di esistere prendendo in mano della sabbia*, un sasso. Considerando questi fatti, non soltanto quelle scritte sulle pagine dei libri sono parole. Dobbiamo leggere anche le parole della natura; dappertutto, in ogni dove, abbondano parole di quel tipo. Sono scritte perfino nella parte interna di un granellino di polvere.
[→uma] *Un mito e un equivoco che attraversa la storia: l’illuminazione immediata. Alla radice dell’equivoco c’è un deficit di comprensione del processo della realizzazione unitaria: la reale natura di Essere esiste nell’Eterno presente, nel non tempo, ed essa si manifesta nel divenire solo quando il corpo della coscienza-akasico è costituito, strutturato completamente. Solo in presenza di questo “ponte” tra divenire ed Essere, questo si può manifestare. Senza questo ponte bisogna prendere il traghetto, la via delle esperienze che struttura il sentire-corpo della coscienza – corpo akasico.
“Le persone che hanno compreso chiaramente la modalità di essere del vero sé vedendo sbocciare dei fiori di pesco” sono coloro che – nel corso delle molteplici esistenze – hanno potuto strutturare il corpo della coscienza e nell’incarnazione corrente, mancando alla completezza solo alcune sfumature, hanno conseguito queste e con esse la realizzazione unitaria.
È apparsa loro la consapevolezza di questa nuova realtà unitaria, è apparsa in un attimo ed erroneamente hanno pensato e interpretato questo non come l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma come la goccia determinate e risolutiva, goccia a se stante. Essa è solo l’ultima goccia di mille e più gocce, pertanto non esiste alcuna illuminazione istantanea o immediata, esiste invece un lungo processo di strutturazione del sentire che, infine, produce anche una consapevolezza dell’unità raggiunta.
Il mito di questa illuminazione subitanea attraversa la storia e ha fatto molti danni: non puoi raccogliere le mele dall’albero se non hai le braccia che si allungano alla giusta altezza, ma questo gesto è frutto di un processo, non di un attimo in cui avviene un miracolo.
È al miracolo che si può associare l’illuminazione subitanea, e il miracolo, nella nostra visione, ha lo stesso identico senso: l’ultima goccia di mille e più gocce.
La realizzazione unitaria non è il momento in cui possiamo affermare: “C’è unità!”, essa è l’insieme di tutti i gradi di sentire che, insieme all’ultimo grado, costituiscono un insieme. [/uma]
Pertanto, coloro i quali, di quanto sta scritto nei testi, recepiscono solo le parole secondo cui corpo e mente insieme sono, nella loro usuale modalità di essere, il nostro modo di esistere fondamentale, si comportano come chi ritiene che l’immagine della luna riflessa nell’acqua sia la vera luna: si tratta di idee totalmente astratte. Non è diverso dal ritenere che la mia immagine riflessa nello specchio sia veramente me.
Per quanto abile una persona possa essere nell’esprimersi a parole, queste saranno sempre delle immagini. Perciò, questo zazen cui ora esorto, lo indico a chi, oltrepassando parole e logica, percorrendo quell’esperienza personale che chiamiamo pratica religiosa, sente realmente la necessità vitale di chiarire l’insegnamento di Śākyamuni direttamente trasmesso da una persona all’altra.
In tal maniera, per comunicare il modo di essere conforme al vero36 che è il passaggio dall’eternità del presente all’eternità (?, ndr), bisogna necessariamente trasmetterlo secondo la pratica e deve essere di fatto insegnato da un vero maestro. Non da una persona che pensi in termini astratti, basandosi soltanto sulla logica, sulle idee, sugli insegnamenti scritti o sulle parole. Se chi insegna è una simile persona, si verifica il caso di un cieco che indica la strada a un altro cieco.
[Tollini traduce] Inoltre, per ricevere e trasmettere il buddhismo, dobbiamo assolutamente scegliere per maestro una persona che ha fatto esperienza dell’illuminazione e non basta avere per maestro uno studioso che sa mettere in fila le parole. Sarebbe come un cieco che conduce una schiera di ciechi.
36 Nella I edizione avevamo scritto “Vero”, maiuscolo.
All’interno della tradizione della corretta trasmissione dell’insegnamento di Śākyamuni è importante che vi sia il rapporto diretto con un maestro che ha chiarificato quel modo di essere, in ragione della pratica di vita. A un tale uomo vengono a domandare di quel veritiero insegnamento persone delle più varie condizioni, ed egli mostra a ciascuno l’insegnamento di Śākyamuni sotto forma di chiaro itinerario.
Pertanto, siccome non vi è altro insegnamento oltre a quello che ha per centro la pratica vera chiamata zazen, per recepire in modo giusto ciò che è stato insegnato da Śākyamuni non vi è altro che fare zazen.
Noi tutti, uno a uno, nonostante stiamo già vivendo la vita del sé fondamentale, essendo prigionieri di affari e di impegni di carattere mondano, non possiamo incontrare con limpidezza questa vera realtà. Inoltre, esagerando nel rimanere nell’ambito del pensiero astratto, ci illudiamo che solo quanto è stato pensato in virtù del proprio intelletto sia il vero modo di essere. Ci allontaniamo per sempre dal giusto modo di essere. Siamo convinti che quanto è stato escogitato dall’intelligenza sia assoluto; da ciò deriva il formarsi di varie opinioni: ciò che pensiamo in base a esse è considerato il vero cammino nell’insegnamento di Śākyamuni.
Non è questa la direzione: recepire nel modo giusto l’insegnamento di Śākyamuni è lasciare tutto ciò che viene escogitato dal proprio intelletto**. Questo in pratica è zazen. Mentre davvero “facciamo” zazen, superate distinzioni quali giusto o sbagliato, io o altro, limitato o illimitato, viviamo completamente in assoluta libertà la modalità fondamentale dell’essere. Così è, per cui non si devono assimilare coloro che praticano zazen con coloro che, sulla base della sola interpretazione di testi e teorie, dicono che questo è profondo o che quello è superficiale».
[→uma] **I due paragrafi evidenziati sono chiaramente fondamentali, come lo è l’espressione: “lasciare tutto ciò che viene escogitato dal proprio intelletto“.
Zazen è questo lasciare; osservo, però, che se questo lasciare non derivasse da una comprensione acquisita attraverso le esperienze di vita, la pratica in zazen del lasciare sarebbe piuttosto relativa.
In altri termini: non si lascia perché in zazen si pratica il lasciare, si lascia perché si è compresa la natura dell’esistere: a partire da questa comprensione, il lasciare di zazen viene confermato e rafforzato e questo modo di essere in zazen conferma e rafforza il lasciare in ogni attimo della nostra vita.
Fino a quando il sentire non ha conseguito una adeguata maturità, la consapevolezza esprime il punto di vista soggettivo, identitario, intellettivo; quando il sentire è maturo, la consapevolezza è impregnata di esso e viene colto il limite della visione soggettiva e la relatività e illusorietà dell’approccio cognitivo. [/uma]