Bendōwa, Dōgen: fino a quando sedere in zazen? 11

Fonti: Il cammino religioso, Bendowa, Stella del mattino. Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.

7 «Sempre riguardo al fare zazen: se è vero che è bene, per chi non ha ancora accolto con chiarezza l’insegnamento di Śākyamuni, manifestare il reale modo di essere tramite il fare zazen, non è forse anche vero che la persona che ha compreso l’insegnamento di Śākyamuni può fare a meno dello zazen e di simili pratiche?»

Risposta «Anche se parlare a una persona che fa domande così sciocche è inutile come dare a un boscaiolo un remo come strumento per il suo lavoro, proviamo di nuovo a indicare ancora più precisamente il punto fondamentale dell’insegnamento di Śākyamuni.

Una simile domanda ha origine dall’errata concezione secondo cui la pratica del fare zazen e il risultato, o l’effetto che origina, sono due cose separate e distinte. Il fondamento dell’insegnamento di Śākyamuni consiste nel fatto che il fare zazen e il risultato del farlo, il suo effetto, sono un’indivisibile unità.

Questo zazen è la riscoperta che io già vivo pienamente la vita del sé originario, è questa la base su cui lo si pratica; quindi anche per chi fa zazen per la prima volta, in quel momento, in quel luogo vi è tutto l’intero insegnamento di Śākyamuni, come pure vi è tutto il sé originario. Perciò, per quanto riguarda il senso dell’impegnarsi nella pratica religiosa, non ci si deve mai attendere nessun altro risultato, nessun effetto differente dal fare effettivamente zazen.

La pratica in quanto tale è il risultato, lì risiede l’effetto. Dunque, dato che proprio nel fare zazen vi è contemporaneamente il risultato, non c’è punto d’arrivo. Poiché nel risultato vi è il praticare, non c’è un punto che possa essere considerato quello iniziale.

In tal modo sia Śākyamuni che Mahākāśyapa hanno attuato la loro forma così come è, all’interno dell’originario essere come si è. Sia Bodhidharma che Enō sono stati guidati e condotti dall’essere così come si è. Riguardo all’accogliere e trasmettere l’insegnamento di Śākyamuni è per tutti così.

    Essendo la pratica all’interno dell’originario modo di essere così come si è, la pratica dello zazen che ora faccio non è altro che il trasmettersi dell’insegnamento di Śākyamuni inteso come la propria vita vissuta esattamente come è. Quindi lo zazen che io ora metto in pratica è l’insegnamento di Śākyamuni nella sua interezza.

    Siccome la pratica è contemporaneamente il risultato del modo di essere originario, in ogni caso non bisogna trascurare il sedersi in zazen. Inoltre, mentre si pratica, bisogna eliminare persino l’ombra del pensiero “io sto praticando”. Nel momento in cui si abbandona un simile pensiero, si può pienamente e realmente comprendere che tutto, esistendo nella sua forma così come essa è, riempie l’universo intero.

    Ancora, per rendere sempre più splendente il modo di essere così come siamo, è necessario procedere in modo che la propria pratica copra l’intera vita quotidiana.

    Attualmente in Cina, vi sono numerosi monasteri dove 500, 1000 anche 2000 persone praticano con grande impegno lo zazen. Chiedendo ai padri spirituali di quei luoghi del fondamento dell’insegnamento di Śākyamuni, hanno risposto che la pratica religiosa e il risultato o effetto [che ne deriva] non sono assolutamente due cose separate. Non solo i diretti discepoli dei monasteri, ma anche i molti altri alla ricerca dell’autentico insegnamento di Śākyamuni, sia che abbiano appena iniziato la pratica e siano ancora ignari di quella giusta condotta, sia che, per aver fatto a lungo zazen, comprendano a fondo l’insegnamento, ugualmente sono esortati a praticare sempre il corretto zazen.

    È importante tener presente che, come disse l’antico maestro Nangaku Ejō non è che non vi siano risultato ed effetto della pratica41; è che non dobbiamo inquinarli considerandoli separati in termini concettuali. Inoltre, solo dopo aver ben compreso il reale modo di essere dell’insegnamento di Śākyamuni, per la prima volta è possibile praticare.

    Dunque, ognuno di noi, così come è, vive già pienamente tutta la realtà fondamentale dell’essere, ma come manifestare questo splendore?* Ecco dove consiste la pratica».

    41 È un riferimento al dialogo tra Nangaku/Nanyue e Enō/Huineng nel quale il Sesto Patriarca chiese a Nangaku: «Esistono [separatamente] pratica e illuminazione?», Nangaku rispose: «Non è che non ci siano pratica e illuminazione ma solo che non possono essere contaminati». Enō approvò dicendo: «È proprio questo non contaminare che tutti i buddha e i patriarchi mantengono».

    Sottoscrivi
    Notificami
    guest

    2 Commenti
    Newest
    Oldest Most Voted
    Inline Feedbacks
    Vedi tutti commenti
    Catia Belacchi

    “È necessario procedere in modo che l’intera pratica copra l’intera vita quotidiana.”
    Non credo che praticando zz per tutta la giornata, come avveniva nei monasteri cinesi, portasse a manifestazione la natura originale.
    Per questo accanto allo zz è necessario mettere :conoscenza, consapevolezza, comprensione della nostra natura più superficiale, quella che si manifesta agli altri.
    La natura autentica, propria degli esseri, la si coglie di comprensione in comprensione, dopo molte comprensioni.
    Pertanto, una volta scoperta questa, fare zz è necessario perché è la porta che apre a questo sguardo, ma poi l’atteggiamento del meditare lo si porta per tutta la giornata e, alla fine, potrebbe non essere più necessario neanche praticare lo zz, come afferma Uma.

    Kita-lu

    Tutto riconduce all’unità.

    2
    0
    Vuoi commentare?x