Fonti: Tollini, Pratica e illuminazione nello Shobogenzo, Mediterranee.
Shōbōgenzō di K.Nishiyama, traduzione S.Oriani
Shōbōgenzō, tradotto da Gudo Nishijima e Chodo Cross
[Un brano dall’introduzione di Tollini al Sokushin zebutsu] In questo capitolo, Dôgen vuole chiarire un concetto molto diffuso e allo stesso tempo frainteso del buddhismo. Il Mahayana, soprattutto nella sua forma Tendai sostiene che l’illuminazione è intrinseca alla natura umana poiché l’uomo ha in sé la natura-di-Buddha.
Da questa concezione a quella che sostiene che la nostra mente ordinaria (sokushin) è la mente dell’illuminazione, il passo è breve. Ciò comporta la conseguenza di ritenere che qualsiasi forma di pratica e comunque di sforzo per giungere all’illuminazione sia superfluo essendo l’illuminazione già presente in noi. Perché, infatti, sforzarsi di conseguire l’illuminazione dal momento che essa è già acquisita?
Questa stessa domanda era stata la molla che in Dôgen aveva fatto scattare l’esigenza di una risposta adeguata e che lo aveva messo sulla strada del suo lungo viaggio in Cina a cercare una risposta. L’accettazione di questa falsa e pericolosa interpretazione del sokushin zebutzu doveva essere molto diffusa al tempo di Dôgen, se egli sente la necessità di scrivere un capitolo per chiarire l’autentica interpretazione di questo concetto. Certamente, sostenere che non vi è nulla da fare perché comunque si è già illuminati è un atteggiamento molto comodo che attraeva molte persone poco propense ad affrontare gli impegnativi percorsi della pratica.
Il lettore che vuole approfondire la rilevanza dell’espressione sokushin zebutsu, può leggere questo breve testo di T.Tsunoda. Fonte.
“Il Buddismo Zen afferma che chiarire il sé ovvero chiarire la propria mente o la propria natura, è fondamentale”: in questa frase di Tsunoda ricorrono tre espressioni: sé, mente, propria natura come fossero equivalenti e intercambiabili, una approssimazione che non è solo sua ma attraversa il tempo. La chiave sta nella differenza tra “mente” e “mente ordinaria”, ma questo lo vedremo più avanti.
[Oriani traduce] Il nucleo centrale dell’Insegnamento del Buddha è: “La nostra mente è Buddha.” Questo insegnamento è stato trasmesso da tutti i Buddha e Patriarchi fino ai giorni nostri. Invero, l’idea che “La nostra mente è Buddha” non era esposta nelle prime scritture, redatte in India. Fu soltanto con i maestri dello Zen cinese che questa idea fu pienamente sviluppata. Molti antichi discepoli e allievi fraintesero questa dottrina centrale e si smarrirono. Quando gli stolti odono l’affermazione “La nostra mente è Buddha” pensano che non vi sia alcun bisogno di prassi, dal momento che la loro mente è già illuminata. È un grande errore. Costoro non hanno mai incontrato un vero maestro, e la loro illuminazione è nient’altro che illusione.
[Tollini traduce] Ciò che i Buddha e i Patriarchi hanno tramandato senza interruzione non è altro che il sokushin zebutsu. 540
540 Sokushin zebutsu significa letteralmente:”la mente che abbiamo è il Buddha“, cioè la nostra mente che abbiamo in questo momento non è nient’altro che il Buddha stesso, quindi è la mente dell’illuminazione. Il termine shin (Forzani tende a tradurre shin con “cuore”) è traducibile sia con “cuore” sia con “mente” e quindi si riferisce alla parte generalmente non fisica dell’essere umano. Qui per semplicità ho sempre tradotto con “mente”, ma si intenda “cuore/mente”.
Con l’uso del termine “mente” si apre un equivoco che attraversa tutta la storia del Buddhismo: gettiamo qui un primo seme, che poi approfondiremo, affermando che per mente non si intende tanto il corpo mentale quanto la dimensione più vasta dell’umano, dimensione che noi del Sentiero identifichiamo con il sentire di coscienza.
Affermando che “il sentire che abbiamo è il sentire di Buddha“, si intende dire che in noi esiste una dimensione compiuta del sentire, intendendo per compiuta “completamente strutturata”.
Simultaneamente in noi esiste una duplice condizione d’esistenza:
– quella determinata dal sentire relativo e incompiuto che genera l’intera dimensione del divenire, del vivere nel tempo;
– quella del sentire compiuto e strutturato, una delle condizioni di Essere, che è oltre il divenire che comunemente sperimentiamo da incarnati. Questa seconda dimensione è quella propria dei Buddha (semplificando molto).
Ne consegue che tutti, nel non-tempo-Essere, possediamo/siamo il sentire compiuto dei Buddha, e nel tempo delle nostre incarnazioni sperimentiamo invece un sentire relativo e limitato. Da questa affermazione ne consegue che il divenire è la manifestazione dei diversi gradi di sentire che costituiscono il sentire maturo e strutturato.
L’esistenza umana abbraccia quindi uno spettro molto ampio che va dal non-tempo al tempo, dal sentire compiuto al sentire limitato: la nostra consapevolezza è focalizzata solo su alcune dimensioni di questo spettro, quella fisica, astrale, mentale; le altre dimensioni, da incarnati, ci rimangono, in parte, occluse.
Testo chiarissimo, dopo aver letto i commenti di Uma su Bussho.
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