Dogen, Busshō: commento (4) di Jiso Forzani a Bussho 2 [busshō2.4]

Ciò non vuol dire che qualunque cosa, nella condizione in cui è, sia l’essere, per cui tutto va sempre bene così*. Questo è il gran dubbio che viene ogni qual volta il discorso religioso arriva a questo punto. Se l’essere è il tutto che è, se non c’è nulla fuori dal sé, tutto è già a posto, lasciamoci andare all’impulso del momento.

Dobbiamo guardare in faccia questo dubbio, senza evitarlo. Anche Paolo è nello stesso identico punto: Se però la nostra ingiustizia mette in risalto la giustizia di Dio, che diremo? Se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono giudicato ancora come peccatore? Perché non dovremmo fare il male affinché venga il bene? Non sono interrogativi retorici, sono inquietanti domande realistiche. Parlo alla maniera umana, dice Paolo; questa è la visione contaminata di chi è fuori dalla via e afferma: “Il mondo della verità universale è io dice Doghen.

Non ci sono due mondi distinti, due realtà separate: il mondo della verità universale non è un luogo particolare, in cui la verità è riposta, tenuta nascosta, rinchiusa, per cui a un certo momento balza fuori. Ciò non significa, però, che il mondo della verità sia il mondo così come è**: questo modo di vedere è proiettare una verità a propria immagine e somiglianza.

Noi sentiamo dire che Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, e ne approfittiamo per pensare che basti guardarsi allo specchio per vedere l’immagine di Dio: così facendo, invece, vediamo la nostra immagine, e pensando che sia quella l’immagine di Dio proiettiamo un dio a nostra immagine e somiglianza: anche se lo chiamiamo dio, è sempre io. Il mondo della verità è questo mondo andato al di là dello specchio.              

Quando la vita è vissuta come la Via, anche tutto il passato prende senso. Il grande scrittore argentino Jorge Borges, che amava far dire alle parole cose indicibili, afferma che, volendo dire cos’è l’intelligenza divina, una buona similitudine potrebbe essere che è quell’intelligenza che vede le orme di tutti i passi che un uomo ha camminato nell’arco della sua esistenza come un unico percorso che forma un disegno armonioso e sensato. Nel momento della conversione, quando la via e la vita non sono separate, anche tutti i contorcimenti del nostro cammino assumono il senso: senza la conversione, anche la linearità di un procedere impeccabile è priva di autentica direzione. 

Non c’è un momento di partenza, per cui da quel punto in poi la vita ha senso*, e tutto ciò che precede è da buttare: all’essere non manca nulla, non c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere.**

Nulla è fuori dall’essere: non è circoscrivibile a questa o quella esperienza, a questo o a quel modo di credere, a questa o quella pratica religiosa. Però non posso dire che per me non c’è inizio: infatti se non mi metto davanti alla mia vita senza maschera e senza specchio, se non sto nel cuore della domanda («Questo che cosa è che viene così?») senza la risposta in tasca, io non sono quello che sono. Ma non sono io che comincio a far essere l’essere così come è: è già, qui, nel bel mezzo della mia vita.

«Sappi che dentro ogni cosa che è c’è il tutto che vive: lì ti visita la gioia e lì t’imbatte la difficoltà. Quando comprendi così ogni cosa che è, allora ogni cosa che è diviene corpo limpido e liberazione».

Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.

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