Saremmo tentati di sorvolare su questa frase: «Aspirare a conoscere la vera forma della natura autentica, in verità è osservare la relazione del tempo reale. Quando il tempo viene, la natura autentica si fa presente».
Sembra ovvio: se il tempo non è maturo, non c’è niente da fare. In effetti facciamo sempre esperienza di questo aspetto della realtà: se le circostanze del tempo non sono adatte, i nostri sforzi vanno a vuoto. Possiamo zappare, concimare, sarchiare, seminare, innaffiare finché vogliamo, ma se non viene il tempo giusto, tutto il nostro impegno è inutile: siamo dentro qualcosa di più grande di noi, che condiziona il risultato di tutti i nostri sforzi.
[→uma] Il tempo giusto, secondo la visione del Sentiero, è la disponibilità di sentire adeguato per una certa visone, interpretazione, comprensione, contemplazione. Quando non abbiamo accesso a una certa visione e comprensione è perché il sentire che determina noi e le nostre rappresentazioni non ha ancora la struttura necessaria. [/uma]
Possiamo dire e ridire a una persona le cose giuste, ma se quella persona non si mette in sintonia, se per quella persona non è ancora venuto il momento, non c’è nulla da fare: quante volte facciano questa esperienza con le persone che ci stanno a cuore, con i figli e gli amici, e quante volte altri la fanno con noi. Quante volte facciamo questa esperienza con noi stessi: sappiamo quello che dovremmo fare, ma non ce la facciamo: il tempo non è venuto. Eppure…
Qui non si nega la realtà di queste nostre ripetute osservazioni: è in discussione l’ottica, il punto di osservazione. «Osservare la relazione del tempo reale, è osservare con in mano la relazione del tempo reale». Il rapporto con il tempo non è qualcosa che si osserva dal di fuori, come guardare dalla riva un fiume che scorre: io sono dentro al rapporto con il tempo nel momento stesso in cui lo osservo. Il mio osservare non è mai da spettatore: la vita non è uno spettacolo, non c’è un punto esterno da cui osservarla. La filosofia occidentale contemporanea, non ignorando le teorie fisiche dell’indeterminatezza per le quali, almeno nel campo delle particelle elementari, non è possibile osservazione oggettiva in quanto l’osservatore modifica il fenomeno con la sua stessa presenza, concorda in pieno: il vero osservare non è un soggetto che osserva, non è un oggetto osservato.
Aspirare a conoscere non si limita quindi a una conoscenza obbiettiva e discriminante, come uno che guarda una cosa dal di fuori, e giudica. Aspirare a conoscere è totale coinvolgimento e porta con sé, necessariamente, il mettere in pratica concretamente, il testimoniare con il proprio comportamento, l’annunciare intorno a sé, e il procedere oltre. Aspirare a conoscere è sinonimo di osservare la relazione del tempo perché tutto avviene in essa e fuori di essa nessuna cosa avviene.
C’è attesa del tempo che viene, perché certo il tempo viene. Attesa non è stare lì ad aspettare qualcosa che speriamo o temiamo che accada: non è aspettativa statica. In realtà non esiste un posto dove stare lì ad aspettare, come si aspetta l’autobus: siamo dentro la vita, siamo dentro il rapporto con il tempo, ci muoviamo con esso. L’attesa è all’interno del rapporto con il tempo, si muove con esso e lo muove: la vera attesa è contribuire a creare il tempo che viene, non con l’atteggiamento di chi si osserva in questa opera, ma riversando me stesso nel rapporto totale con il tempo che sto vivendo.
[→uma] Bisogna precisare cosa significhi “totale coinvolgimento” e “riversando me stesso nel rapporto totale con il tempo che sto vivendo“: anche l’imprenditore che tiranneggia i suoi dipendenti è totalmente coinvolto con il suo tempo, la sua funzione, i suoi interessi, le sue relazioni del momento temporale. Ma non stiamo parlando di questo.
Le due espressioni usate sono profondamente ambigue quanto universalmente usate ma la domanda che sorge spontanea è: chi deve essere totalmente coinvolto? Quali livello dell’essere? O si considera l’essere un monolite?
Debbo essere coinvolto fisicamente, astralmente, mentalmente, ovvero nella sfera dell’identità? La consapevolezza deve essere focalizzata su questi piani? O la consapevolezza deve innanzitutto abbracciare il sentire il quale si porta dietro ogni consapevolezza transitoria ed effimera? È chiaro che si intende questo e allora ne conseguono delle implicazioni che affronteremo commentando il paragrafo successivo. [/uma]
Osservare non è stare a guardare: «non dipende da chi opera l’osservare e da chi lo subisce, nemmeno va fatto corrispondere a un giusto o a un pervertito osservare dicendo: questo è “il vero osservare”. È vero osservare, quindi non è un soggetto che osserva, non è un oggetto osservato. Questo è la relazione del tempo reale: è la relazione che trascende. La natura autentica è questo: è il corpo nudo della natura autentica. Natura è questo, autentica è questo».
[→uma] “È vero osservare, quindi non è un soggetto che osserva, non è un oggetto osservato”. Sacrosanto. Ma allora se non c’è un soggetto che osserva e non c’è un oggetto osservato – a parte l’inadeguatezza del verbo “osservare” – chi è che compie l’osservazione e cos’è l’osservazione?
La risposta è semplice: quello che accade nulla ha a che fare con l’osservare, tutto riguarda invece il sentire: la situazione viene semplicemente sentita e colui che può sentire è solo il corpo della coscienza, non i corpi transitori: il sentire sente la scena ed è per questo che non c’è soggetto né oggetto, perché siamo su un piano che trascende entrambi, sente ciò che di sentire è costituito – determinati ambiti vibratori – e siamo molto lontani dal percepire dei sensi dei corpi transitori, percepire che pure è presente.
“È la relazione che trascende”: certo, siamo aldilà di ogni identificazione di soggetti, con le forme e con gli stati, siamo su un piano altro, ma, appunto perché viene trasceso il piano duale e del divenire, questo implica che vi sono, nell’umano, gli strumenti idonei per una percezione/esperienza diversa del reale e allora l’affermazione “totale coinvolgimento” ha un senso se significa: focalizzazione della consapevolezza sul sentire che permette una percezione unitaria dell’accadere.
Percezione unitaria significa che il sentire sente le vibrazioni che gli sono proprie come quelle mentali, astrali, fisiche: sente l’insieme unitario di ciò che accade nel momento presente.
Questo sentire è apersonale, oltre soggetto/oggetto, oltre il due. C’è trascendenza perché c’è contemplazione, perché l’ambito della separazione è trasceso per privilegiare un sentire che non divide, che non contrappone e questo può accadere perché la consapevolezza attivata è quella del corpo della coscienza/corpo akasico. [/uma]
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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