[Dal post precedente] È vero osservare, quindi non è un soggetto che osserva, non è un oggetto osservato. Questo è la relazione del tempo reale: è la relazione che trascende. La natura autentica è questo: è il corpo nudo della natura autentica. Natura è questo, autentica è questo».
Il corpo nudo: Meister Eckart dice, nel suo sermone sulla povertà di spirito, che il vero povero non sa di essere povero, non si ritiene povero; neppure vuole fare la volontà di Dio, perché voler fare è già una ricchezza, un’aggiunta. Quando Gesù insegna ai suoi discepoli la preghiera al Padre, premette: «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8). Questo è il corpo nudo: io non aggiungo nulla, non tolgo nulla, ma siccome già faccio parte della relazione del tempo che viene, mi restituisco, nudo, al mio vero modo di essere.
[→uma] Non si parla di altro, attraverso alcune metafore, che di un principio: ciò che sono non è altro che il mio sentire, quel sentire che mi genera. Se io mi definisco come soggetto, mi estraggo da quel sentire e illusoriamente mi sento depositario di un libero arbitrio: è un processo – il più diffuso e comune di tutti – che mi aliena e separa da ciò che sono, dalla mia reale natura.
Il corpo nudo della reale natura autentica è quell’essere-sentire senza aggiungere la pretesa di essere altro: qui è la chiave di tutto, la cifra del risiedere nell’Essenza.
Bisogna però precisare: una cosa è la pretesa di “essere povero e spoglio“, o “di fare la volontà di Dio“, un’altra è il recepimento accogliente di una attrazione ineludibile verso lo spogliamento di sé e l’abbandono radicale al sentire: non c’è contemplativo che non viva nel midollo queste due attrazioni e che non cerchi di rispondere secondo le sue possibilità di sentire.
Il passaggio dall’attrazione ineludibile alla pretesa, dal perdere sé all’aggiungere il proprio sforzo, ha tratti grossolani e altri sottilissimi.
La percezione di sé come soggetto tende a operare sottotraccia in ogni contemplativo, e questa è una dinamica naturale finché esiste incarnazione in corpi transitori: quella traccia, o tendenza o forza, opera in modi molto differenti ma è un aspetto grossolano che il contemplativo smaschera con facilità.
Diversa è la dinamica del gorgo che ci porta sempre più in profondità nell’abisso del sentire/Essere, qui siamo in presenza di scarti sottilissimi difficili da definire e forse anche da smascherare. Un esempio: lavoro tutti i pomeriggi per tre ore circa su Bussho e sviluppo un profondo stato contemplativo mentre leggo e scrivo.
Quando lo stress nei corpi si fa sentire ed è ragionevolmente ora di smettere, si affaccia sempre un sottile senso di perdita nell’abbandonare questo stato.
È una forma di attaccamento? È un’ingordigia “spirituale” che mi conduce a risiedere a un dato livello di sentire? È la trappola del duale che separa il lavoro alto, quello su Bussho, da quello ordinario del vivere?
Non ho una risposta, osservo e lascio andare, d’altra parte è anche evidente che c’è uno sbalzo tra il vivere con una certa ampiezza che ci avvolge totalmente e il tornare alla ferialità dove quell’ampiezza permane ma si intreccia con altre forze e stimoli sensoriali.
La via della naturalezza non è aspettare un evento che per sua forza mi modifica e mi salva. Chi invece scruta il cielo per vedere i segni del tempo che viene, chi attende un tempo particolare, sarà sempre insoddisfatto: abituato a vivere nell’attesa, come si accorgerà che il tempo è venuto? Abituato a vivere guardando sempre altrove, cercando sempre dei segni, come riconoscerà il tempo che viene? Come un ragazzino che non ama la scuola e aspetta solo la Domenica: la Domenica viene, ma lui già guarda al Lunedì: che tristezza! San Paolo, che pure è il cantore della visione escatologica, ammonisce: «Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio: Egli infatti dice: “Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso”. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,1-2) Se siamo capaci di coniugare attesa e presenza, osservazione della relazione del tempo reale e relazione che trascende, allora non ignoriamo la natura autentica.
I momenti di dubbio non sono fuori del tempo che viene: fanno parte integrante della realtà come i momenti di certezza. Anzi, sono i momenti di dubbio quelli che ci fanno ritornare nella direzione del superamento del dubbio. Chiamare dubbio il dubbio mi fa comprendere che sto guardando come da fuori ciò in cui sono dentro: è, scrive Doghen altrove, come dire che manca l’acqua mentre si sta nuotando in mezzo al mare. Non c’è che da tornare qui, nell’unico luogo in cui si manifesta la natura autentica.
Fonte: Busshō. La natura autentica, di Eihei Doghen. A cura di Giuseppe Jiso Forzani. Edizioni EDB, Bologna, marzo 2000.
Nota del curatore
Lavorando sullo Shōbōgenzō di Dōgen e non volendo in alcun modo produrre una esegesi delle sue parole, la mia unica preoccupazione è: di fronte a questo concetto, a questa visione, a questo stato che Dōgen dichiara, io cosa provo, cosa sento? Sono capace di indagare il mio interiore nella sottigliezza di certi stati, e possiedo un linguaggio, dei simboli per trasmettere il provato/sentito?
Dōgen mi mette con le spalle al muro e, quando fatico per attraversare le nebbie del testo tradotto, il mio intento è quello di giungere a cosa sentiva lui, a quale sentire rimanda la sua parola, per compiere il percorso che dal suo simbolo mi conduce a ciò che sento. È nel sentire che lo incontro, passando attraverso le nebbie delle parole e dei concetti.
Il passo successivo è: posso osare trasmettere ciò che sento utilizzando il linguaggio simbolico che mi è proprio e che credo sia, in questo tempo, più universale di quello tramandatoci dagli antenati?
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