Dove conduce la via della realizzazione e dell’unità? In un giardino fiorito come cantato da mille tradizioni? O in un deserto? La seconda, nella esperienza del Sentiero contemplativo.
Non il deserto un po’ romantico di alcune narrazioni, ma quel deserto in cui sei straniero a te stesso, intima parte di un mondo anch’esso straniero.
Nel post di ieri declinavo i sette stati del Ciò-che-È, oggi vorrei rimarcare che essi si manifestano in un deserto. Naturalmente il dove e il come si manifestano dipende dalle narrazioni personali, qualcuno potrebbe dire che sperimenta quegli stati nel mezzo di un giardino lussureggiante, e non avrebbe torto essendo la realtà “così è (se vi pare)”.
Possono convivere i sette stati del Ciò-che-È con il deserto? Mi chiedo come potrebbero coesistere con una narrazione dell’abbondanza.
Quando è presente Ciò-che-È? Nel vuoto di sé, nel vuoto degli stimoli, nel vuoto delle adesioni, quando nell’attimo eterno si dischiude.
Ma non si dischiude niente se ci sei tu, o se c’è identificazione con un dato che giunge, o che scorre. Nell’attimo eterno in cui il Tutto-Uno sorge come consapevolezza, affinché possa accadere attorno deve esservi il niente. Nel vuoto si manifesta l’Essenza, nell’essere straniero a qualunque appartenenza: niente tra cielo e terra, niente che separi, niente che protegga.
La condizione di straniero non è assenza di compassione, è la sua pienezza: “Nel mio sentire si riassume l’avventura umana di ogni creatura che sento essere anche la mia avventura; avendo compreso la sacralità di ogni esperienza, a questa ti lascio. Nell’intimo ti tengo mentre ti lascio al tuo itinerare. Quando avrai bisogno ci sarò, ma conta sulle tue forze”.
In questo vasto spazio cui siamo giunti, dove l’unica cosa che attrae lo sguardo è la sabbia di questo momento, l’arbusto nell’arsura o nel freddo della notte, la traccia di un insetto, accade il celebrare la Vita-che-è in ogni attimo eterno, accade la Vita che celebra se stessa essendo la “Vivente”, “l’Essente”: noi, questo noi che non sapremmo declinare, è tutto interno a questo “Vivente/Essente”, nulla che lo differenzi, indistinguibile.
Negli oltre tre decenni di via attiva che hanno condotto qui, l’ottica è sempre stata di questa comunione dei “Viventi/Essenti”, ecco il perché di tanta intensità d’esperienza, di tanta richiesta di presenza, di tanto conflitto e continuo cambiamento: non siamo altro dall’ambiente che creiamo e quell’ambiente è l’officina del nostro esserci e scomparire. Senza il coraggio di esserci, difficile immaginare uno scomparire.
Tutto per giungere a niente, a questo spazio d’esistenza da straniero, benedetto sia, segno della conoscenza del monte dell’Unità: delle sue vallate, delle sue pendici e forse della sua vetta di questo preciso istante, non di quella che tra un attimo sarà.
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Post che non si può commentare ma solo far risuonare in sé tanto è profondo.
Grazie.
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